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SCUOLA/ La riforma delle chiacchiere sui tagli e del silenzio sul curriculum
Tiziana Pedrizzi
venerdì 8 gennaio 2010
La discussione sulle riforme italiane non ha osato toccare il tema del core curriculum.
Paradossalmente è più indolore nel nostro Paese motivare la riduzione di orario scolastico con la necessità di risparmi economici, piuttosto che con l’utilità di ridurre gli sprechi di materia grigia.
Nel primo caso infatti ce la si può prendere – e la cosa è scontata e rituale – con il ministro di turno, mentre nel secondo rischia di essere messa in discussione molto più pesantemente la Weltanschauung educativa della nostra classe dirigente e l’identità e l’orgoglio professionale di molte cattedre.
Nel 2004, quando la Commissione Thélot presentò in Francia una proposta di ristrutturazione radicale dell’impianto degli studi, giunse alla conclusione di garantire e presidiare fortemente 4 aree: francese, matematica, inglese funzionale ed informatica funzionale. Si scatenò un dibattito aspro con forti connotazioni ideologiche, a causa dell’evidente declassamento del tradizionale compito di trasmissione della cultura. In particolare la sinistra tradizionale accusò questa ipotesi di preparare un curriculo di serie B per le masse, tutto “strumentale” e privo di sfondi storico-critici.
In Italia non si è giunti a questo, anche perché la chiarezza francese non ci è abituale. Ma se ci si arrivasse, i termini della discussione e gli schieramenti sarebbero molto simili. E forse è stato meglio così, perché porre il problema con nettezza probabilmente avrebbe significato bloccare qualsiasi possibilità di cambiamento. Tuttavia la scelte delle materie su cui condurre le indagini degli apprendimenti internazionali e nazionali (INVALSI) hanno sullo sfondo la stessa opzione Thélot. Solo che nessuno spinge per farsi misurare, mentre tutti si adontano se si tagliano le cattedre.
In termini di politiche scolastiche, banalizzando, si può dire che la propensione internazionale e nazionale a ridimensionare o a tenere bassi gli orari scolastici nasce dalla verifica dei limiti di alcune ipotesi dei decenni passati. Per esempio: bisogna ampliare ed approfondire il patrimonio culturale da trasmettere a scuola, perché ne abbiamo la possibilità ed il mondo lo richiede. E quindi più materie, più contenuti, metodologie più sofisticate. Oppure: bisogna sanare le differenze di classe con tempi compensativi, in cui anche Pierino impari a scuola ciò che Gianni impara in famiglia. E quindi tempo pieno, tempo prolungato, 40 ore ai professionali.
Ma la mente umana ha una capienza data; per di più e nel frattempo le stesse cose hanno cominciato a raccontarle mezzi di comunicazione più potenti ed attraenti. Si è scoperto, poi, che anche dopo avere rimosso tutti gli ostacoli socio-economici che tenevano lontani interi strati sociali dalla scuola, non tutti sono così interessati agli argomenti che appassionano i professori che fanno i piani di studio ed i programmi. E anche che, a furia di accumulare nozioni ed informazioni sugli argomenti più disparati, si rischia di perdere di vista il sapere leggere e scrivere e fare di conto ai livelli anche elevati, che oggi è necessario padroneggiare. Ma cosa deve rimanere, allora? Dovendo scegliere, ci si orienta quindi sempre più a garantire il saper leggere, scrivere e far di conto. Certo, soprattutto per i paesi europei che hanno una forte tradizione culturale, questa impostazione è problematica, tanto è vero che fra le competenze europee figura un palese “ripescaggio” delle competenze culturali, anche se declinate funzionalmente come recezione e produzione.
Forse anche per questa ragione, e non solo per il potente assalto delle corporazioni, in Italia si procede più egualitaristicamente con dei tagli proporzionalmente simili, cercando di non azzerare nessuna area.
Bisognerà vedere però se ciò basterà a garantire il ritorno ad una alfabetizzazione di livello medio-alto dei nostri giovani.
Alcune domande curiose finali a proposito dei tagli.
Che ne sarà delle copresenze?
Questo strano e “costosuccio” istituto solo italiano è nato dalla necessità di reimpiegare insegnanti, le cui cattedre erano state eliminate o di garantire insegnamenti che gli insegnanti titolari avrebbero dovuto garantire. È il caso degli ex-insegnanti di stenografia e dattilografia che, passati attraverso il restyling di trattamento testi, sono andati a fare compagnia agli insegnanti di ragioneria e tecnica bancaria, che non hanno voluto, potuto o saputo imparare degli applicativi gestionali. O dei conversatori delle diverse lingue straniere, che hanno rimediato al fatto che noi abbiamo insegnanti di lingue straniere che non sopperiscono, come invece accade dappertutto negli altri Paesi, alla bisogna di conversare in una lingua, che non sia l’italiano.
Possiamo sperare che questo spreco cessi? E che per programmare insieme non ci sia bisogno di stare insieme nella stessa aula?
Che ne sarà dei laboratori? Grande scandalo alla presentazione delle ipotesi di riforma: è sparita per gli studenti la possibilità di andare in laboratorio. In realtà, dopo decenni di auspici bipartisan, si cerca di fare cessare, almeno in parte, lo scandalo della presenza (?) nella stessa ora di tre persone: l’insegnante, l’insegnante tecnico pratico, l’assistente. Certo, alcuni laboratori sono pericolosi, ma è così avventuristico pensare che possa bastare un adulto competente con un solo aiutante tecnico?
Passi per la mancata discussione sul core curriculum, ma almeno questa selettività nei tagli dovremmo potercela assicurare.