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La scuola e il teorema del sindacato
Giovanni Cominelli venerdì 3 aprile 2009
Il Pd ha lanciato una petizione, sotto la quale raccogliere le firme degli insegnanti, dei genitori, degli studenti, da indirizzare al Parlamento perché affronti “cinque emergenze”: soddisfare tutte le richieste delle famiglie sul tempo scuola; assegnare risorse adeguate agli istituti scolastici; bloccare l'espulsione di oltre 87 mila insegnanti e 44.500 Ata (ausiliari tecnici e amministrativi) precari; attuare un piano straordinario per la messa a norma degli edifici scolastici; evitare la chiusura delle piccole scuole. A Fioroni, già Ministro della pubblica istruzione, viene attribuita una grande preoccupazione circa il degrado della qualità della scuola. Ad essere maliziosi, ciò che in realtà interessa a Franceschini e Fioroni è il calo elettorale previsto dai sondaggi proprio tra quelle categorie che storicamente si sono sempre rivolte a sinistra: gli operai e gli insegnanti. Il fatto è che ora rischiano di rivolgersi ancora a sinistra, ma a quella che sta a sinistra del PD. E perciò, per impedirne la fuga, il PD adotta le parole d’ordine dei sindacati tradizionali e della sinistra radicale.
Il Quaderno bianco dell’autunno del 2007, firmato da Padoa Schioppa e Giuseppe Fioroni, che metteva in discussione, cifre alla mano, l’antico il paradigma quantitativo delle politiche della scuola viene gettato nel cestino della carta straccia. Il teorema quantitativo è elementare: la qualità dell’educazione e della formazione è proporzionale alla quantità dell’occupazione intellettuale nella scuola. Ne esistono altre formulazioni: più tempo a scuola, migliore la qualità. Più anni, più ore, più materie, più insegnanti, più personale amministrativo e ausiliario producono maggiore qualità.
Contro questo teorema, Padoa Schioppa e Fioroni incominciarono coraggiosamente a mettere in evidenza il fiume degli sprechi e fecero proposte di risparmi. Ma già Luigi Berlinguer nel 1997 aveva promosso un piano di razionalizzazione, che venne attuato quasi solo al Nord. E questo spiega perché oggi i tagli previsti da Tremonti incidano traumaticamente soprattutto al Sud: perché sono stati di continuo rimandati. E’ un paradigma che viene da lontano.
Guido Gonella, ministro dal 1946 al 1951, aveva scoperto attraverso una grande inchiesta nazionale del 1946 che c’erano almeno 80.000 maestri e migliaia di insegnanti disoccupati. Temendo che sarebbero finiti egemonizzati nell’alleanza proletario-comunista degli operai e dei contadini, avviò quella linea che avrebbe fatto fortuna, prima a guida DC e poi sindacale-PCI, di trasformare il Ministero dell’istruzione nel Ministero della manodopera intellettuale. La ratio dell’espansione del sistema divenne così la politica dell’occupazione intellettuale, che veniva gettata dalle Università sul mercato del lavoro. Così vero, che gli alunni sono calati dai 10 milioni del 1971 agli 8 milioni del 2001, mentre gli insegnanti sono aumentati nello stesso periodo da 650 mila a 800 mila e oltre, con congrua aggiunta di circa 200 mila precari.
Difficile prevedere se la ripresa del teorema quantitativo servirà al PD a ridurre l’emorragia dei voti, prevista dai sondaggi. E’ invece facile dimostrare che il teorema è falso. Le indagini nazionali dell’Invalsi e di altri Enti di ricerca e quelle internazionali dell’Ocse dimostrano che una correlazione positiva e una proporzionalità tra spese e risultati degli apprendimenti non esiste proprio. L’Italia è uno dei Paesi al mondo che spende di più nell’istruzione – tra il quarto e il sesto posto – eppure si colloca nella fascia medio-bassa delle graduatorie mondiali. Persino nella fascia storicamente più di qualità, quella della scuola primaria, si registra un abbassamento.
La correlazione positiva scatta tra qualità e riforme: personalizzazione, decentramento, preparazione, valutazione e carriera degli insegnanti. Affermazioni che del resto il Quaderno Bianco incorporava. Se volessimo affondare il coltello nella piaga, saremmo costretti a far notare impietosamente che il governo dell’Ulivo 2006-2008 non ha fatto né risparmi né riforme, addossando l’onere degli uni e delle altre al governo successivo. Questo giornale ha sottolineato più volte che i tagli non possono essere lineari, che devono essere intelligenti, che non devono penalizzare le autonomie feconde delle scuole, che vanno modulati per soggetti, per territori, per settori. Ma la razionalizzazione della spesa e la sua qualificazione debbono andare avanti. Alle nostre spalle sta un criterio: il benessere educativo degli utenti, non gli interessi degli addetti. Questioni di disoccupazione o di perdita del posto di lavoro sono drammatiche e gravi. Ma non si può affrontarle a spese del bilancio per l’istruzione, bensì di quello dell’assistenza e dell’aiuto ai disoccupati. La logica del PD è un’altra: costituirsi quale sindacato politico degli insegnanti e dei precari. Peccato che l’area dei competitori per questo ruolo sia già molto affollata.