da ScuolaOggi
L’autonomia scolastica ovvero l’isola che non c’è
di Dedalus
Lo scritto di Franco De Anna, “Dieci anni dopo”, è un saggio teorico di notevole interesse e indubbio valore culturale. Sicuramente utile per un approfondimento della problematica generale dell’autonomia scolastica o per corsi di formazione sul management e l’amministrazione scolastica. Ma ha un limite implicito: quello, appunto, di essere un saggio “teorico”. Non sempre corrisponde al vero quanto afferma De Anna, secondo cui “nulla (vi sarebbe) di più pratico di una buona teoria”. Nel caso specifico la pratica, la realtà quotidiana delle scuole nel nostro paese è ben diversa, poco si riconosce in quelle righe. Non è molto utile, in altri termini, un saggio di questo genere, a tracciare un bilancio dell’autonomia scolastica realizzata in questi dieci anni, come ci si sarebbe aspettati dal titolo. Ma probabilmente non erano quelle le intenzioni dell’autore né le finalità del testo. Per capire l’entità delle trasformazioni avvenute o in atto forse servirebbero di più analisi documentate di tipo sociologico o socio-economico.
D’altra parte lo scritto di De Anna offre comunque degli spunti - e quindi l’opportunità di aprire un dibattito su Scuolaoggi - per una riflessione “politica” sullo stato attuale dell’autonomia scolastica, sulla situazione esistente nelle istituzioni scolastiche, vale a dire, sostanzialmente, sull’autonomia che non c’è.
Partiamo allora dal Dpr 275 del 1999, Regolamento in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, che rappresenta indubbiamente l’atto più innovativo della legislazione scolastica degli ultimi dieci anni.
Autonomia didattica e organizzativa (artt. 4 e 5): rispetto al passato è indubbio che – su questo versante - vi sono ampi spazi di movimento, sia sul piano della flessibilità didattica che organizzativa. Innanzi tutto, non essendoci più programmi didattici nazionali, rigidi e prescrittivi, i Collegi docenti hanno una certa libertà d’azione nella definizione dei curricoli di studio e dei piani dell’offerta formativa. Cioè possono effettivamente concretizzare “gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni” (art.4). E possono fare questo avvalendosi di modalità organizzative (impiego dei docenti, orari, possibile articolazione modulare di gruppi di alunni, ecc.) non consentiti all’interno del sistema prima vigente, fondamentalmente burocratico e centralistico.
Certo, nei limiti delle risorse esistenti. Rispetto al passato, dicevamo, non è poco, tutt’altro. Non intendiamo certo sminuire la portata storica di queste innovazioni. Ma è altrettanto indubbio che sussistono ancora forti vincoli e condizionamenti che sarebbe ingenuo o superficiale ignorare.
Se parliamo di risorse professionali - quindi degli organici e della loro gestione - non si può non rilevare che spesso mancano risorse per fronteggiare le necessità e le emergenze educative (es. insegnanti facilitatori di apprendimento per alunni stranieri, supporti per handicap e disagio, ecc.). Una situazione questa (risorse insufficienti in alcuni casi e magari “esuberi” di personale in altri) probabilmente diseguale sul territorio nazionale e che andrebbe verificata attentamente (tenendo conto di alcune variabili quali il rapporto alunni/classe, l’orario scolastico, la tipologia dell’utenza scolastica, ecc.). In ogni caso, per quanto riguarda la gestione degli organici docenti – in assenza del famoso “organico funzionale” – i margini e le possibilità di movimento si fanno ben stretti, per non dire irrisori.
Ma quel che il Dpr 275 non dice espressamente e che rappresenta il presupposto, la base per una vera autonomia delle istituzioni scolastiche è l’autonomia finanziaria (che poi è quella che conta, per la semplice ragione che senza risorse non c’è alcuna autonomia effettiva degli istituti…). Ed è proprio qui il punto debole. Qui, nel funzionamento ordinario degli istituti scolastici e delle attività didattiche, si sono registrate le situazioni di maggior sofferenza delle scuole nel corso di questi anni.
A proposito di meccanismo e di “modello di finanziamento” di cui parla De Anna in linea generale, come non ricordare alcuni risvolti concreti e sotto gli occhi di tutti? Ci sono scuole che non hanno i soldi per pagare le supplenze, le sostituzioni del personale assente (i finanziamenti arrivano col contagocce e con forti ritardi mettendo in crisi i bilanci degli istituti, soprattutto nelle scuole di base). Ci sono scuole che hanno accumulato ingenti debiti nei confronti degli enti locali (la vicenda della tassa rifiuti è emblematica). Scuole che non sono in grado di provvedere non si dice alla manutenzione ordinaria degli edifici (spetta agli enti locali) ma neppure alla piccola manutenzione, ai piccoli interventi su arredi, strutture scolastiche, laboratori, ecc.
Scuole che per poter attuare attività e progetti didattici (dal teatro, alla musica, all’informatica, ai laboratori, ecc.) devono ricorrere al contributo economico dei genitori. Ci riferiamo non soltanto al cosiddetto “contributo volontario” per le iscrizioni – una sorta di tassa d’iscrizione diffusa da tempo nelle scuole medie milanesi e ora in via di generalizzazione anche nelle elementari – ma anche ai fondi raccolti con feste della scuola, lotterie e iniziative di vario tipo. Per dirla in termini ancora più espliciti e indicare un dato significativo: nel bilancio di molte scuole – e parliamo di scuole dell’obbligo – i fondi raccolti e versati dai genitori superano ampiamente il finanziamento per il funzionamento didattico-amministrativo assegnato dal Ministero.
Ma la scuola dell’obbligo - pubblica e statale - a questo riguardo, non doveva essere gratuita? Perché allora dover ricorrere a queste forme (vitali) di “autofinanziamento”?
Né ci sembra corretto che le scuole - pubbliche e statali - per poter funzionare, debbano rivolgersi a “sponsor” privati alla ricerca affannosa di sovvenzioni in cambio di pubblicità, secondo le logiche di mercato. Sarebbe questa l’autonomia? Non pensiamo certo che siano queste le esperienze di “autofinanziamento” delle scuole autonome di cui parla De Anna quando scrive che “il fund raising è stata una delle attività più significative della nuova dirigenza scolastica, almeno di quella più attenta e imprenditiva”. Ma allora quali? E non porta fuori strada questa concezione del dirigente-imprenditore, soprattutto nella scuola di base (vale a dire nel settore maggioritario del nostro sistema di istruzione)?
Autonomia dovrebbe innanzi tutto voler dire mettere le istituzioni scolastiche - pubbliche e statali, sottolineiamo ancora - in grado di essere autosufficienti, sul piano finanziario (spese di funzionamento) e organizzativo (organici). Così non è. Occorre riconoscere allora che l’autonomia scolastica è una grande idea, ma resta – allo stato attuale delle cose – sostanzialmente incompiuta. Se non si parte da qui, se non si parla delle condizioni materiali in cui versano le scuole, si rischia di disegnare paesaggi astratti, interessanti quanto lontani dalla realtà. E’ un po’ come parlare dell’isola che non c’è, come nel romanzo fiabesco di James M. Barrie.
Dedalus