Concorso Nazionale
“Un ospedale con più Sollievo” II edizione
organizzano
Fondazione Gigi Ghirotti
UCIIM
Associazione Professionale Cattolica Italiana di Docenti, Dirigenti e Formatori
In collaborazione con
Università Cattolica del Sacro Cuore
Associazione Culturale Attilio Romanini
A.I.I.R.O.
Associazione Italiana Infermieri di Radioterapia Oncologica
Con il patrocinio
Ministero della Salute
Ministero della Pubblica Istruzione
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
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Presentazione
È opinione diffusa che la Sanità nel nostro Paese, mentre risulta in continua crescita
nei suoi aspetti tecnologici, sembra al contrario ridurre la sua dimensione umana nel
difficile rapporto fra operatori sanitari e pazienti.
Mentre la moderna Medicina, sempre più basata su metodi scientifici rigorosi
(medicina delle evidenze) sta registrando risultati molto positivi in tutte le sue
specializzazioni, più che mai si avverte una insoddisfazione diffusa e crescente da
parte di coloro che sono destinati a beneficiare di tali risultati: i pazienti ed i loro
familiari. I vari episodi di malasanità, puntualmente oggetto di ampia diffusione da
parte dei media, sono almeno in parte espressione di questi sentimenti. La
superspecializzazione e soprattutto la crescita tumultuosa delle applicazioni
tecnologiche se, da un lato, interessano quasi morbosamente i pazienti ed i loro
familiari sempre più "informati" ed esigenti, dall'altro facilitano questa sensazione di
abbandono ad opera degli operatori sanitari.
Per esaltare e far crescere nella coscienza collettiva, nell’ambito di questa relazione di
aiuto, il valore insostituibile del “sollievo” inteso non come negazione definitiva del
dolore fisico ma piuttosto come sostegno sollecito ed amorevole, psicologico e
spirituale al malato, specie se cronico in evoluzione di malattia, da anni si celebra, sia
pure in maniera alquanto disomogenea, una lodevole iniziativa nel nostro Paese.
Si tratta della GIORNATA NAZIONALE DEL SOLLIEVO, proposta dalla
fondazione Gigi Ghirotti, istituita con decreto del presidente del Consiglio nel 2001,
per l’ultima domenica di Maggio.
Vista la tendenza ad applicare anche nel nostro Paese modelli di assistenza che
privilegiano competenza, appropriatezza ed economicità delle cure sui sentimenti di
condivisione del disagio altrui, è urgente trasferire tale consapevolezza al mondo dei
"provvisoriamente sani", cominciando dalla scuola, fin dal livello primario. affinché
siano sensibilizzati a tale tema gli alunni, le loro famiglie e gli stessi insegnanti.
Di seguito ci piace riportare il testo della "Lettera al Malato" che il Direttore generale
della fondazione Gigi Ghirotti, Nicasia Teresi, ha composto in occasione della 1°
giornata:
Caro paziente, eroe sconosciuto dai mille volti che si sovrappongono nella memoria,
vorrei sentire la tua voce in questa Giornata dedicata a te. Caro amico, grazie per la
pazienza che mi hai insegnato quando ascoltavi le ruote di quel carrello spinto lungo
un corridoio infinito, quando si fermava nelle stanze vicine, contando quando
avrebbe impiegato a raggiungere la tua stanza con la soluzione a quel dolore. A volte
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
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hai aspettato con silenziosa dignità il tuo turno, altre volte hai urlato il tuo bisogno
impellente suonando insistentemente quel gracchiante campanello che disturbava l’
udito, ma non scuoteva le coscienze. “Non si agiti, stia calmo, un pò di pazienza, di
educazione,....” Parole facili, scontate, a volte taglienti.......é un “sano” che parla.
Quante notti insonni trascorri in cui la luce dell’alba sembra non arrivare mai,
lunghi notti in cui ricordi, angosce, paure si intrecciano in ragnatele inestricabili!
Grazie per il grato sorriso che mi hai regalato, in una calda giornata estiva, per un
pò di acqua fresca. Grazie per avermi onorato dalla tua amicizia e confidenza
raccontandomi frammenti della tua vita. Ho pianto con te, abbiamo riso insieme su
storie buffe a volte inventate solo per evadere da quell’angoscia; ho stretto la tua
mano, tu hai stretto la mia. Grazie per avere arrestato le mie stressate e insensate
corse del quotidiano ed avermi insegnato a fermarmi per assaporare la gioia di ogni
attimo del tempo che scorre. Nonostante il tempo trascorso insieme, io sono “sana” e
scopro di non poter capire fino in fondo i tuoi bisogni, le tue angosce, il tuo dolore.
La tua intimità e il tuo corpo violato da tante mani sconosciute. In palazzi, in stanze
colme di sapienza si parla di te, del tuo dolore, dei tuoi bisogni. Si decide, si giudica
e a volte...ci si “commuove”. Si scrive la tua storia a volte solo per potere o per
interessi personali. Caro amico, forse non posso comprenderti fino in fondo, ma se
vuoi ecco la mia mano, stringila, ti aiuterò a salire il palco, chiederò ai dotti di
tacere. Oggi vogliamo ascoltare solo la tua voce. Tu hai diritto di essere ascoltato.
Perché solo tu sai e puoi dirci di che cosa hai bisogno.
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Regolamento
Art.1
Lo scopo del concorso è quello di sensibilizzare alunni, docenti e famiglie sul tema
del Sollievo inteso non come la negazione definitiva del dolore fisico ma piuttosto
come sostegno sollecito ed amorevole nel dolore fisico, psicologico e spirituale al
malato specie se cronico in evoluzione di malattia.
Art.2
Il concorso è riservato esclusivamente agli alunni della V classe della scuola
primaria, della III classe della scuola secondaria di primo grado e delle classi del
primo biennio della scuola superiore che possono partecipare con elaborati personali
o di gruppo.
Art.3
Gli elaborati devono riguardare la tematica del sollievo e consitono in:
• V classe della scuola primaria: prodotto iconografico
• III classe della scuola secondaria di primo grado: breve testo
• Primo biennio della scuola superiore: videoclip
Art.4
Caratteristiche degli elaborati.
• Il prodotto iconografico può essere un disegno o una composizione arricchita
da ritagli di giornali, illustrazioni, fotografie, fumetti. Può essere
accompagnato da una breve descrizione dell’elaborato.
• Il testo non deve superare i 600 caratteri (spazi esclusi).
• Il videoclip: deve essere in formato DVD (19/9 o 4/3) della durata massima di
1,5 minuti (compresi i titoli di coda e l’introduzione)
Art.5
È obbligatorio partecipare al concorso con un solo elaborato.
Art.6
Gli elaborati dovranno pervenire, entro e non oltre il 31 marzo 2008, a
Fondazione Nazionale “Gigi Ghirotti”
Via Fratelli Ruspoli 2
00198 Roma
Art.7
Il videoclip dovrà essere spedito utilizzando supporti ottici (ad esempio CD/DVDrom).
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Art.8
Il plico degli elaborati, che non deve essere firmato, né deve evidenziare il nome dei
concorrenti o della Scuola di provenienza, dovrà contenere, in busta chiusa non
intestata, una scheda indicante i riferimenti della Scuola che partecipa al concorso
(Denominazione, Via, Città, C.A.P., Telefono), del dirigente scolastico,
dell’insegnate che ha guidato gli alunni nell’elaborazione dei lavori (Cognome e
nome, Via, Città, C.A.P., telefono) e l’elenco degli alunni che hanno partecipato al
lavoro (come scheda allegata in ultima pagina).
Art. 9
Il giudizio della giuria, che è composta da rappresentanti delle organizzazioni
promotrici, è insindacabile.
Art.10
Sono poste in palio due borse di studio di € 500,00 euro ciascuna offerte dalla
Fondazione Gigi Ghirotti, che verranno assegnate una alla classe degli alunni che
avranno realizzato il miglior prodotto iconografico, una alla classe degli alunni che
avranno redatto il miglior testo. Una terza borsa di studio, di pari importo, in
memoria di “Anna Maria Verna”, sarà consegnata alla classe degli alunni che
avranno prodotto il miglior videoclip.
Alla scuola di appartenenza degli alunni vincitori verrà assegnata la targa della
Giornata Nazionale del Sollievo. Agli insegnanti che hanno curato gli elaborati dei
vincitori verrà attribuita una medaglia di riconoscimento. A tutti gli alunni che
parteciperanno al concorso verrà rilasciato il diploma di partecipazione.
Alla scuola che avrà partecipato con più elaborati verrà consegnata una targa di
riconoscimento. I premi e i diplomi si ritirano personalmente.
Art.11
Le buste contenenti le schede di partecipazione verranno aperte a premio assegnato e
verrà data notizia dell’esito agli organi di informazione ed agli interessati con lettera
personale
Art.12
Gli elaborati pervenuti resteranno di proprietà della Fondazione Gigi Ghirotti,
dell’U.C.I.I.M. e dell’Associazione Culturale Attilio Romanini, che si riservano la
possibilità di pubblicarli successivamente.
Art.13
La cerimonia di premiazione avrà luogo al Policlinico “Agostino Gemelli” durante la
celebrazione della Giornata Nazionale del Sollievo (25 maggio 2008).
Art.14
La partecipazione al concorso comporta l’incondizionata accettazione di tutti gli
articoli del presente regolamento.
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Approfondimenti
Lungo viaggio nel tunnel della malattia
Nel 1972 il famoso giornalista Gigi Ghirotti si ammalò di una grave malattia del
sangue, un tumore chiamato “linfoma di Hodgkin”, oggi di questa malattia si può
anche guarire, ma negli anni in cui si ammalò Gigi Ghirotti non c’erano ancora
farmaci e cure efficaci. Lui sapeva della gravità della malattia e anziché abbattersi e
chiudersi in se stesso rinunciando alla vita, decise di impegnarsi e lottare fino in
fondo. Era giornalista, e quindi il modo migliore di affrontare questo periodo
difficile della sua vita, ritenne fosse quello di continuare a fare il proprio lavoro.
Ghirotti in tanti anni di lavoro era stato inviato in varie città e regioni italiane per
raccogliere direttamente informazioni sulle più svariate questioni o eventi e scrivere
articoli e inchieste. Così gli italiani potevano essere informati e conoscere molte
realtà della nostra Italia senza che si spostassero da casa, ma grazie all’occhio
attento e la capacità narrativa di Gigi Ghirotti. Ebbene, ammalatosi, Ghirotti decise
di continuare a fare l’inviato speciale, ad informare gli italiani, questa volta dai
luoghi che, diceva Ghirotti, si incontrano attraversando “il lungo tunnel della
malattia”. Da bravo giornalista e cronista fece conoscere agli italiani, attraverso i
giornali e la televisione, ciò che accade a chi, suo malgrado, si ammala ed è
costretto a farsi curare negli ospedali.
Ghirotti ha aperto all’Italia di quegli anni una finestra sul mondo del malato e della
malattia e ha indicato tante questioni e problemi da conoscere, affrontare e risolvere.
Ha indicato tanti ostacoli al sollievo dalla sofferenza; un sollievo che per essere
vissuto, non ha solo bisogno della liberazione dal dolore fisico o da altri sintomi, ma
anche di rispetto della persona malata, della vicinanza di persone care, di medici e
infermieri che sanno relazionarsi con attenzione e cura, di speranza. Alcune frasi
raccolte qua e là da quello che ha scritto e detto Ghirotti possono aiutarci a capire
cosa vuole realmente la persona malata e come vive nella sua condizione di fragilità.
Quello che importa, sia durante la vita, sia di fronte alla morte, è non sentirsi
abbandonati e soli.
Mi trovo impegnato in una partita difficile, su terreno fangoso, con un avversario che
è furbo e anche sleale. Ma non sono solo. C’è mia moglie, Mariangela, che mi aiuta,
mi dà fiducia, mi dà il braccio se vacillo. […], finché dura l’incontro, ogni possibilità
è sospesa: non ho vinto io, ma nemmeno lui, siamo pari. E vero, il signor Hodgkin
deve tirare il suo terribile calcio di rigore. È pauroso pensarci, ma in fin dei conti
anche i più famosi campioni talvolta sbagliano il rigore. E in ogni caso è giusto che
quel pallone mi trovi sulla porta, quando arriverà.
Non abbiate paura di disturbare. Una volta si usava girare in punta di piedi attorno
all’ospedale. Ma è un’usanza sparita da un pezzo: adesso pare che gli indici più
drammatici della rumorosità urbana si vadano registrando appunto in coincidenza
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con gli ospedali. Non fatevi scrupoli, dunque, per il “disturbo”; l’importante è che il
malato non sia lasciato solo.
Gli ospedali sono pieni di bambini infelici, la cui infelicità è accresciuta dalla
mancanza di amicizie e di collegamenti con i coetanei in buona salute. [...] Qualcosa
anche uno scolaro può già fare: andando per esempio negli ospedali alla ricerca dei
piccoli ricoverati. Per conoscerli, per sentire se, ad esempio, volessero praticare lo
scambio delle figurine.
Il messaggio di Gigi Ghirotti continua ancora oggi anche senza di lui, grazie alla
Fondazione Nazionale che porta il suo nome. La Fondazione Ghirotti è convinta che
il sollievo è raggiungibile anche nelle malattie più gravi e invalidanti; anche quando
non è possibile guarire. Lungo la strada che porta al sollievo si incontrano: terapie e
cure del dolore e della sofferenza, il generoso e gratuito aiuto di volontari, l’ascolto
di persone esperte come psicologi, il facile accesso ai servizi sociali e sanitari e
soprattutto l’affettuosa presenza di persone care accanto al malato.
Alcuni malati hanno raccontato alla Fondazione Gigi Ghirotti come si sentono
quando sperimentano il sollievo:
Sollievo è uno spiraglio di luce che si fa strada in mezzo a tanta sofferenza.
Dopo tanto buio, tanto dolore e paura ho incominciato a vedere il mondo in bianco e
nero, ho iniziato a respirare. Oggi c’è colore, ci sono i profumi nel mio mondo e… ci
sono io.
Il sollievo è la quiete dopo la tempesta.
Il sollievo è riprendere fiato.
Per me sollievo è essere compresa e coccolata e parlare con qualcuno che mi
capisca.
È la voglia di vivere dopo il dolore è come una grossa nube che va via dopo il dolore.
Il sollievo per me è sentirmi libero e leggero da ogni dolore fisico e morale.
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Una breve riflessione sulla sofferenza
Giovanni Villarossa
dirigente scolastico - vicepresidente nazionale UCIIM
La sofferenza è legata alle caratteristiche psicofisiche di ogni singola persona, le
reazioni al dolore dipendono della sua sensibilità, del suo carattere, della tipologia
di lavoro che esercita o ha esercitato, dallo stile di vita che conduce e dai principi
etico-religiosi a cui si ispira.
La reattività al dolore è rapportata alla tipologia del dolore stesso che può essere
fisico, psichico, della coscienza o dell’anima.
A seconda della persona si hanno risposte di diversa intensità sul piano etico,
esistenziale ed ontologico.
La presenza del dolore crea un turbamento nell’equilibrio della persona.
Quando il dolore è fisico si hanno reazioni psico-fisiche tipiche del mondo animale;
quando è psichico vengono coinvolti aspetti specifici dell’uomo e crea reazioni di
tipo umorale e comportamentale; quando è della coscienza siamo ancor più nella
specificità umana e le reazioni sono di tipo intellettuale ad una riflessione
problematica del proprio agire etico e dei propri orientamenti esistenziali; quando è
dell’anima coinvolge la spiritualità dell’uomo ed è frutto del peccato verso Dio e
verso il prossimo.
La sofferenza fa scoprire all’uomo i propri limiti e la capacità di rifiutarla,
sopportarla o accettarla.
Il rifiuto comporta abbattimento, isolamento o ribellione al proprio stato.
La sopportazione è frutto della presa d’atto di una condizione che va comunque
vissuta.
L’accettazione è consapevolezza, valorizzazione del dolore e affinamento della
propria sensibilità e spiritualità.
Le attuali terapie mediche del dolore si sono correlate alla psicologia medica, che
studia le reazioni del singolo paziente, per contenere il suo dolore entro limiti
sopportabili.
La conoscenza dei fattori che concorrono alla genesi del dolore consente alla
medicina di ottenere livelli di miglioramento della qualità della vita anche in pazienti
affetti da inguaribili malattie.
La persona consapevole della propria condizione sofferente riesce meglio a
pervenire alla presa di coscienza della sua intima essenza, infatti la frattura che
coglie tra ciò a cui ha aspirato e l’impossibilità della realizzazione creatagli dalla
sofferenza gli dà la misura del limite della propria corporeità e la percezione della
precarietà di una vita non necessariamente corrispondente alle attese in essa riposte.
Ma lo sperimentare direttamente la fragilità dell’esistenza, attraverso la sofferenza,
se si accompagna alla difficoltà di riuscire a darle un senso, può diventare un
dramma esistenziale, che aggiunge dolore a dolore.
Allora sorge il lamento sempre più intenso nei confronti di una Natura o di una
condizione umana, che viene accusata di mancanza di logica e di giustizia.
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In alternativa la sofferenza è intesa come prova permessa da Dio per purificare e
verificare la fedeltà dell’uomo. E diventa occasione di salvezza e di liberazione.
Nasce così la resa, la donazione di tutto se stesso a Dio, mistero insondabile.
La sofferenza va, allora, collocata nel piano di Dio, il cui agire nella storia è sempre
imprevedibile ed inconoscibile.
L’esperienza della sofferenza può creare condizioni di apertura alla trascendenza,
dove, forse, dopo tanto dolore, si può incontrare quel Dio, che a lungo si è cercato e
dal quale ognuno è stato cercato.
Si attribuisce così una senso al vivere anche nelle situazioni più difficili, senza
abdicare alla propria dignità di persona umana.
Soffrire davanti a Dio non va confuso con forme di ascetismo, con sopportazione
stoica, con provvidenzialità del dolore, con rassegnazione.
Soffrire davanti a Dio è un chiedergli conto, è un consegnarli il proprio dolore o
meglio un consegnarsi con il proprio dolore.
La presenza Dio accanto all’uomo, la sua compassione, è stata rivelata dalla
passione di Cristo e dalla sua resurrezione che attestano la possibilità del
superamento della sofferenza e della morte.
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Il rapporto con la sofferenza in prospettiva educativa e didattica:
orientamenti per gli insegnanti
prof. Andrea Porcarelli
Consigliere Centrale UCIIM – Direttore Scientifico del Portale di Bioetica
(www.portaledibioetica.it)
Un concorso come quello che ha a tema il “sollievo della sofferenza”, in rapporto al
nostro modo di concepire anche il ruolo delle strutture ospedaliere e rapportarci con
esse, può essere considerato come una significativa “occasione educativa” per
mettere a tema alcune questioni di grandissima attualità, che – peraltro – sono state
anche al centro di recenti e accesi dibattiti culturali.
Prima ancora di addentrarsi nel cuore della progettualità didattica un insegnante ha
bisogno di mettere a fuoco alcune idee guida, la “posta in gioco” sul piano culturale,
cercando – contestualmente – di farne emergere le potenzialità in prospettiva
educativa. Scopo di queste brevi note è proprio quella di accompagnare quel
momento di focalizzazione mentale che sta a monte della progettazione didattica e, in
qualche misura, ne costituisce l’anima in senso profondo. Cercheremo dunque di
tratteggiare – in prima battuta – una sintetica “mappa problematica” che possa
offrire il senso della complessità delle questioni direttamente o indirettamente
coinvolte (anche per non confondere realtà diverse, mediante sovrapposizioni
indebite); ci soffermeremo poi sul tema della sofferenza, cercando di metterne in luce
alcuni risvolti culturali più significativi in prospettiva educativa.
Una “mappa problematica” con diverse questioni che si intrecciano
La sofferenza come dimensione dell’esperienza umana
Dal punto di vista biologico la sofferenza rappresenta un “campanello d’allarme”,
un indicatore mediante il quale gli organismi viventi e dotati di vita sensitiva
reagiscono a situazioni che potrebbero essere nocive per loro e, pertanto, possono
assumere comportamenti conseguenti per salvaguardare se stessi e la propria salute.
Ovviamente la sofferenza non è solo di natura fisica, ma spesso si radica in
problematiche di tipo psicologico e relazionale, che a loro volta retro-agiscono sulla
stessa fisicità (somatizzazione), così come è possibile concepire dei dinamismi per
cui alcune esperienze di privazione e di sofferenza sul piano fisico, si traducono in un
irrobustimento del carattere e della personalità, portando benefici sul piano
spirituale.
L’approccio medico, ma anche psicologico, alle diverse forme di sofferenza dipende
pertanto da un’attenta considerazione delle condizioni complessive in cui si trova la
persona con cui ci si rapporta e non può limitarsi a soluzioni affrettate e superficiali.
La terapia del dolore
L’approccio al problema del dolore, in medicina, ha avuto in tempi recenti una
evoluzione, nel senso che - soprattutto nel caso dei malati cronici acuti - è stata
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sviluppata una vera e propria terapia del dolore, intesa non solo come una sorta di
elemento “a latere” della terapia mirante alla cura della malattia, ma intesa come
un complesso di interventi terapeutici che hanno la sintomatologia dolorosa come
oggetto diretto. In realtà si tratta di una ripresa (in termini più moderni e con
l’ausilio di conoscenze e tecniche più evolute) dell’antico detto della scuola
salernitana: “divinum sedare dolorem”, che precisa uno degli elementi essenziali
della medicina ippocratica.
Mettere a tema la morte senza banalizzarla
Dal punto di vista biologico la morte rappresenta la cessazione irreversibile delle
funzioni vitali di un soggetto vivente, quindi sembrerebbe una nozione relativamente
semplice. Ma nelle questioni complesse è bene non dare nulla per scontato, per cui
quando parliamo – ad esempio - di eutanasia richiamiamo l’idea della morte come se
fosse un concetto chiaro che ci aiuta a spiegarne uno più oscuro e pare che l’unico
problema sia quello di stabilire se e a quali condizioni essa possa venir chiamata
“buona”. In realtà parlare della morte non è così banale, essa non rappresenta un
“dato immediato” dell’esperienza, ma un’interpretazione di alcuni segni visibili di
una realtà che non si vede. Più ancora è complessa la questione dell’interpretazione
“esistenziale” di ciò che abbiamo designato con il termine “morte”. Oggi si tende a
banalizzare fortemente la morte, spesso “rimossa” dall’orizzonte delle nostre
considerazioni, talora “spettacolarizzata” (con funzione probabilmente catartica),
talaltra addirittura “ricercata” (si pensi ai “comportamenti a rischio” di alcuni
adolescenti), ma in tutti questi casi destituita del suo profondo significato
esistenziale, come “evento supremo”
In tema di accertamento di morte, al di là della problematicità stessa del termine, vi è
stata un’evoluzione notevolissima delle metodiche, soprattutto in questi ultimi anni.
Per secoli, per accertare l’avvenuta morte, si è utilizzato il criterio di constatare
l’arresto dei battiti cardiaci e della respirazione; il che lasciava comunque aperto un
certo margine di dubbio di cui gli stessi operatori erano consapevoli1. L’invenzione
dei respiratori artificiali e l’approfindimento - da parte del personale curante - di
pratiche come il massaggio cardiaco, hanno messo radicalmente in discussione tali
criteri: grazie alle tecniche di rianimazione è possibile assicurare per settimane (o
anche per mesi) la circolazione sanguigna, la respirazione, l’escrezione e il
nutrimento di un organismo, ma si tratta di un essere umano ancora vivo o di
tecniche che consentono il funzionamento di alcuni organi di un cadavere?
Negli anni 1955-1960 alcuni rianimatori si trovarono di fronte a casi
particolarmente impressionanti di corpi umani che presentavano i segni evidenti
della morte ma che, secondo i criteri allora ammessi, erano da considerare vivi:
sussistevano respirazione e circolazione sanguigna. Apparve presto evidente che tali
1 Si pensi, ad esempio, al racconto evangelico circa le risurrezione di Lazzaro, in cui non solo si dice che l’amico era
morto, ma che era sepolto da tre giorni e già “mandava cattivo odore” … in tal modo ogni possibile dubbio viene
fugato.
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stati dipendevano da una distruzione irreversibile del cervello2, tanto che nel 1959,
in occasione del XXIII Convegno neurologico internazionale3, fu resa la prima
descrizione del coma dépassé o “morte cerebrale” (espressione decisamente più
precisa e - per questo - preferibile). Infatti il termine “coma” indica una perdita
prolungata dello stato di coscienza (il che si rileva soprattutto a livello di vita di
relazione), ma non comporta l’abolizione della funzione di regolazione
dell’organismo.
L’accompagnamento del morente
Il dolore fisico non è sempre l’elemento peggiore della condizione esistenziale del
malato grave, spesso il problema è più profondo: parliamo di quel malessere
dell’anima che caratterizza chi si avvicina al momento supremo della vita,
soprattutto se ciò avviene sotto il segno della solitudine. La sofferenza e la morte
vengono sempre affrontate “in prima persona”, nel senso che nel momento supremo
ciascuno è fisiologicamente “solo”, ma questa esperienza (unica nella vita) diviene
opprimente se viene affrontata in modo “solitario”, sentendosi abbandonati.
Diversi testi4 hanno preso in esame la condizione psicologica e relazionale del
malato terminale, fino a tracciare una sorta di percorso in cui si collocano alcuni
degli atteggiamenti più ricorrenti:
• Il rifiuto. All’inizio la persona, pur essendo consapevole della gravità del suo
male, tende a rifiutarlo, accusa i medici di essersi sbagliati, consulta altri
sanitari, si impegna febbrilmente in nuove attività.
• La collera. Non potendo negare la realtà alcuni malati reagiscono in modo
aggressivo (“perché proprio a me?”), alcuni credenti sperimentano anche una
fase di ribellione contro Dio.
• La depressione. Può essere di due tipi: la depressione reattiva per cui non ci si
rassegna alle menomazioni o limitazioni imposte dalla malattia, la depressione
silenziosa, in cui il malato non vuole essere disturbato dagli amici o dai visitatori,
ma desidera stare con una sola persona che si sieda al suo fianco e lo conforti.
L’accanimento terapeutico (medico)
Con il termine “accanimento terapeutico” si designò inizialmente il ricorso a terapie
“sproporzionate” rispetto agli esiti possibili di guarigione o anche solo di recupero
di funzionalità, ma tale indicazione risulta piuttosto vaga ed è oggi necessario
precisare meglio. Anche lo stesso termine può essere messo in discussione: un’azione
autenticamente “terapeutica” (cioè tale da rappresentare una cura efficace e
proporzionata rispetto alle condizioni fisiche complessive di un determinato malato)
può essere legittimamente “tenace” (non usiamo il termine “accanita”), mentre
2 Furono le autopsie effettuate su malati tenuti a lungo in vita artificialmente che consentirono di verificare che il
cervello aveva già cessato da tempo le proprie funzioni.
3 Cfr. Patrick VERSPIEREN, Eutanasia? Dall’accanimento terapeutico all’accompagnamento dei morenti, Paoline,
Cinisello Balsamo (MI), 1985, p. 75 e sgg.
4 Cfr. E. KÜBLER - ROSS, La morte e il morire, Cittadella, Assisi 1976, ripresa anche da Patrick VERSPIEREN,
Eutanasia? Dall’accanimento terapeutico all’accompagnamento dei morenti, Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1985,
p. 183 e sgg.
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
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quando parliamo di “accanimento” è segno che l’azione che si sta compiendo – in
quelle determinate condizioni – non è più autenticamente “terapeutica”, quindi si
potrebbe addirittura preferire l’espressione accanimento medico, perché si allude ad
un’azione di tipo medico, che non ha il rango di autentica terapia. Il rifiuto
dell’accanimento medico trova concordi tanto coloro che si ispirano ad una
concezione etica di tipo personalista (ivi incluso il Magistero della Chiesa cattolica),
quanto coloro che fanno riferimento a concezioni materialiste o utilitariste: il vero
problema è quello di stabilire la linea di confine tra una terapia legittima e doverosa
(la cui mancata erogazione si configurerebbe come “abbandono terapeutico”) ed
una terapia sproporzionata (accanimento medico).
La stessa questione si pone anche per le terapie rianimative, per cui si potrebbe
parlare anche di “accanimento rianimativi”. Quando l’EEG è piatto si ammette la
sconfitta, e si desiste da azioni di rianimazione che non farebbero altro che
mantenere attiva la funzionalità di alcuni organi di un cadavere. Vi sono però dei
casi (coma respiratorio o iperazotemico) in cui l’EEG non è piatto ed allora è
necessario interrogarsi sulle possibilità reali di un recupero del paziente: se esiste
uno scompenso funzionale di determinati organi, tale da rendere impossibile il
recupero, allora le azioni terapeutiche ed anche le pratiche di rianimazione sono un
semplice prolungamento di un’agonia già in corso.
L’eutanasia
Il termine, letteralmente, significa “bella morte” (dal greco eu = bene e thanatos =
morte) o “buona morte” ed è stato utilizzato per secoli senza alcun riferimento alla
pratica che oggi viene indicata con tale nome che, peraltro, era esplicitamente
eslcusa dal Giuramento di Ippocrate.
Solo alla fine del XIX secolo - in pieno clima culturale positivista - l’espressione
eutanasia assume il nuovo significato di procurare una morte dolce … mettendo fine
deliberatamente alla vita del malato. Il termine nel linguaggio bioetico
contemporaneo ha assunto progressivamente due significati:
1. (ormai in disuso) “l’intervento della medicina diretto ad attenuare i dolori della
malattia e dell’agonia, talora con il rischio di sopprimere prematuramente una
vita”,
2. (prevalente) “un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni di
chi la compie, procura la morte, allo scopo di eliminare radicalmente le ultime
sofferenze o di evitare il prolungarsi di una vita infelice, segnata da gravi
handicap fisici o mentali”, sia che il soggetto risulti consenziente (se è capace di
intendere e di volere al momento della richiesta), sia che egli non possa
esprimere il proprio consenso (nel qual caso portatori della richiesta sono i
parenti più stretti).
Spesso capita oggi di notare – nel dibattito bioetico – una sovrapposizione tra
questioni di fatto diverse, come se la cosiddetta uccisione pietosa, potesse essere
considerata una forma di “terapia del dolore” o peggio ancora un modo di
“accompagnare” la persona gravemente ammalata verso la morte ormai imminente.
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
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La stessa confusione si realizza – a maggior ragione – nella comunicazione
mediatica e più ancora nelle menti dei giovani che spesso trovano nei media la loro
principale fonte non solo di informazione, ma anche di “formazione” di una
mentalità e di un’opinione. In tale situazione si coglie con maggiore evidenza il ruolo
chiarificatrice che può avere la scuola.
Il tema della sofferenza in prospettiva educativa
Brevi cenni su alcune linee di tendenza nella nostra cultura
Questi brevi cenni, data l’esiguità dello spazio che ad essi possiamo dedicare, hanno
semplicemente la funzione di collocare le proposte di tipo didattico-formativo nel
contesto di un’analisi culturale da cui non possiamo prescindere se vogliamo
svolgere un’azione educativa efficace: i nostri ragazzi non sono dei marziani,
provenienti da un altro mondo, ma sono persone che respirano a pieni polmoni la
mentalità in cui sono immersi e la respirano proprio in quella stagione della vita in
cui non hanno ancora quegli strumenti di discernimento critico che spetterebbe
anche a noi aiutarli a formarsi.
L’incapacità di concepire la sofferenza
L’uomo d’oggi non è capace di concepire la sofferenza e cerca una sorta di raffinato
equilibrio tra piaceri fisici e relazionali, “calcola” quali preferire in vista della
propria utilità e fa di tutto per sfuggire la tristezza, la noia, il dolore: l’uomo ha
paura del dolore, della sofferenza, della morte, ma come si difende da tutte queste
cose che pure esistono? Per lo più si difende cercando di non pensarci, come
suggeriva Epicuro: la morte non è nulla, il dolore si può sopportare ...
Più ancora dobbiamo osservare come la nostra cultura dell’imagine ci presenti una
sorta di mito dell’eterna giovinezza e per di più i nostri ritmi di vita sono sempre più
assorbenti e fagocitano in modo impressionante le nostre energie e la nostra
attenzione, tanto che per una persona mediamente attiva il livello di efficienza
richiesto è notevolissimo: viviamo in una società in cui i ritmi di vita esigono un
grado tale di efficienza che la malattia non è “prevista”, per cui chi si ammala (e mi
riferisco soprattutto a chi si ammala in modo cronico e grave) si trova a dover
fronteggiare una duplice sofferenza: 1) da un lato sperimenta la sofferenza fisica
dovuta alla malattia (che, già di per sé, è qualcosa di fastidioso e seccante); 2)
dall’altro lato poi sperimenta il senso di emarginazione sociale che la malattia oggi
come oggi generalmente provoca e, visto che per lo più la nostra cultura tende a
favorire una sorta di identificazione tra “identità personale” e ruolo sociale. La
malattia porta anche a una progressiva perdita del senso del proprio ruolo sociale e,
conseguentemente, sperimenta una crescente solitudine esistenziale.
La radice profonda dell’incapacità di soffrire va ricercata nella perdita della virtù
della speranza: si vuole la ricetta sicura di un certo tipo di felicità; anche nell’età
ellenistica si diffondeva tale sensibilità: si era perduta la capacità di gettare
sull’universo uno sguardo meravigliato e attonito, perdeva terreno lo slancio
speculativo del pensiero umano per ripiegare su problemi pratici, lo scibile veniva
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
14
“incasellato” in sistemi rigidi e assoluti, l’agire affidato a poche semplici norme di
facile attuazione e di sicura efficacia. Anche oggi si pretende qualcosa del genere: si
esige che la scienza, la politica, la società creino presto un paradiso in terra e tale
esigenza è tanto più urgente quanto più si è smesso di guardare con speranza verso il
cielo.
Se poi ci spostiamo dalla percezione della sofferenza a quella della morte notiamo
ancora di più le difficoltà della nostra cultura; è stato giustamente osservato come
una visione secolarizzata della vita, prevalentemente orientata verso beni materiali
di natura edonistica, riveli la propria incapacità di dare senso al dolore e alla morte
e come tale incapacità si traduca in due atteggiamenti solo apparentemente opposti:
“da una parte la si ignora e la si bandisce dalla coscienza, dalla cultura, dalla vita e,
soprattutto, la si esclude come criterio veritativo e valutativo dell’esistenza
quotidiana; d’altro canto la si anticipa per sfuggire al suo urto frontale con la
coscienza”5. La morte si viene dunque a configurare come una sorta di tabù che
dev’essere esorcizzato in vario modo (al limite “giocando” con la propria vita o con
quella altrui).
Dall’incapacità all’intolleranza
Se è vero che l’uomo cerca di non pensare alla sofferenza è vero anche che, quando
la incontra, non ha un atteggiamento positivo verso di essa: la sofferenza, in realtà fa
più paura a chi la vede negli altri che a chi la sperimenta in se stesso. Chi vede
qualcuno soffrire, mentre sta bene, viene subito turbato, viene colto dalla paura che
qualcosa del genere potrebbe capitare anche a lui e questo “qualcoasa” è
particolarmente stridente rispetto alla situazione di relativo benessere in cui magari
si trova. Chi invece sperimenta in se stesso il dolore e la sofferenza ha quanto meno
la certezza “esistenziale” che ormai non la può evitare e allora tutti i suoi sforzi, pur
con comprensibili momenti di sconforto, saranni volti a “reagire” contro le cause o
gli effetti della propria sofferenza. La radice profonda dell’intolleranza verso chi
soffre è proprio il fatto che vede in queste persone una sorta di attentato al proprio
benessere, alla propria tranquillità, al proprio quieto vivere.
A questo punto è tragicamente facile capire come si arrivi a “sacrificare” ogni cosa
sull’altare di questi idoli: un bambino sta per nascere segnato dal marchio della
sofferenza? Meglio ucciderlo, non tanto per lui (che non ci guadagna granché),
quanto per tutti gli altri, perché l’immagine della sua sofferenza non vada a
disturbare il quadro patinato del loro benessere. Un vecchio sta avvicandosi alla
morte tra le sofferenze? Sarebbe meglio sopprimerlo, così il suo pianto di dolore non
turberà la vita di chi ha estromesso il dolore dall’orizzonte della propria esperienza.
Si noti che queste considerazioni hanno di mira solo il problema “culturale”, della
precomprensione che la nostra civiltà da rivista patinata offre di fronte al dolore o
alla sofferenza; non si vuole nemmeno prendre in considerazione il caso ancora più
tragico, ma purtroppo non infrequente, in cui il motivo della scelta di sopprimere o
5 Elio Sgreccia, Manuale di Bioetica, Vita e Pensiero, Milano 1988, p. 466.
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
15
emarginare chi soffre sia dovuto al puro e semplice egoismo di chi dovrebbe
prendersene cura e non lo vuole fare.
Il valore della sofferenza
Abbiamo visto come i problemi più seri della nostra cultura siano, in fondo, quello di
non sapere accettare la sofferenza e di aver perso la capacità di sperare; se dunque
vogliamo accorrere in aiuto di questa cultura e di coloro che in essa maturano e
crescono dovremo ridarle motivi di speranza ridarle motivo di capire il senso della
sofferenza.
C’è un valore nella sofferenza dal punto di vista umano?
Non è facile, parlando in termini puramente umani, dar senso alla sofferenza, è
difficile dire che essa sia un “valore”, qualcosa di bello in se stessa, ma possiamo
tentare di intuire i motivi di una certa “ragionevolezza” in lei: durante un’alba in
montagna, ad esempio, il nostro sguardo è attirato dal sole, dalle nubi che si tingono
dei colori più svariati, ma non possiamo fare a meno di vedere i monti ancora
parzialmente avvolti nell’oscurità perché anch’essi fanno parte allo stesso titolo
dello stesso spettacolo; così di fronte al mistero della vita siamo attratti e affascinati
dalla bellezza e dalla serenità, ma non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alla
sofferenza, perché anche lei ci rivela qualcosa dell’esistenza umana. Per sommi capi
cerchiamo di individuare (in funzione educativa) alcuni spunti per una “pedagogia
della sofferenza”; ne elenco alcuni in modo schematico:
• la sofferenza è parte dell’esperienza di vita, aiuta a crescere, rende “saggi”:
chiunque ha affrontato delle difficoltà e delle prove si rende conto di esserne
uscito “cresciuto”, similmente a quanto capita agli atleti, i cui allenamenti
iniziano a diventare efficaci a partire dal momento in cui il loro fisico fa
effettivamente fatica; la sofferenza è un “allenarsi a vivere” in modo attivo e
reattivo, è un velato (anche se non sempre gradito) invito a trascendere se stessi
ed i propri limiti;
• la sofferenza è occasione d’amore, perché dà all’uomo la possibilità di “farsi
prossimo” in modo concreto e tangibile del proprio fratello che soffre;
• la morte pone di fronte al mistero della vita nella sua interezza: se non ci fosse
questo appuntamento molti sarebbero tentati di “vivere alla giornata” senza vere
motivi seri per mettere in dubbio quello che sia il modo migliore di vivere, senza
fare “bilanci” e senza chidersi come si sta spendendo la propria vita; la domanda
è tanto più significativa quanto più prendiamo sul serio il fatto che di vita ne
abbiamo una soltanto ... e ad un certo punto finirà.
La sofferenza e la morte sono comunque sintomo che qualcosa non va, quasi un
tacito richiamo all’altra realtà misteriosa che è quella del peccato ed al profondo
bisogno di redenzione che bisognerebbe perlomeno riuscire a far intravvedere ai
nostri ragazzi, in una cultura che tende ad ostracizzare il problema.
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
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La sofferenza come “luogo d’incontro” dell’uomo con l’amore di Dio
Il mistero della Redenzione è un mistero di unione, dell’unione intima, amorosa e
amichevole di Dio e degli uomini, che dopo il fatto del peccato deve avere una
“modalità” tutta particolare, cioè quella della Redenzione. Prescindendo da una
piena articolazione dei vari aspetti del mistero della Redenzione ci limitiamo a porre
l’accento sul fatto che la sofferenza costituisce per più di un motivo il luogo
d’incontro dell’uomo con l’amore di Dio:
1. il Verbo di Dio assume fino in fondo la natura umana che vuole redimere,
condivide “in tutto” fuorché nel peccato la condizione umana, e - per quanto
concerne il peccato - ne assume il fardello accettando le conseguenze del
peccato, cioè la sofferenza;
2. la sofferenza di Cristo è anche l’aspetto attivo del suo amore per gli uomini
(nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i nostri amici...);
Per sintetizzare tutto questo in un’immagine, possiamo paragonare la sofferenza al
“luogo d’incontro” con l’amore di Dio, come una panchina, un parco in cui due
innamorati si diedero appuntamento per la prima volta: il luogo in sé potrebbe non
avere particolari attrattive, ma i due saranno ugualmente molto affezionati a quel
luogo, perché è lì che è nato il loro amore ed in forza di questo amore ameranno
anche quella povera panchina sbrecciata. Per questo possiamo dire che Cristo dà un
nuovo significato al dolore e alla sofferenza: la via che porta al Padre passa
attraverso Cristo, passa attraverso il suo insegnamento, attraverso il suo esempio,
ma è una via che passa anche dalla cima del Calvario. Il mistero della sofferenza e
della morte risulta dunque unito in modo ineffabile al cuore stesso del mistero
d’amore che è Cristo: è dunque evidente quanto sia poco saggio disprezzare la
sofferenza, emarginare chi soffre, uccidere chi si suppone che potrebbe soffrire: nel
volto piangente di chi soffre sulla terra è impressa in modo indelebile l’impronta
luminosa dell’amore di Dio e della Passione di Cristo.
In tale prospettiva acquista tutto il suo splendore quel “vangelo della vita” da cui la
nostra cultura ha in qualche modo preso le distanze: riconoscendo il valore della vita
come tale si coglie, all’interno di una considerazione analogica della gerarchia di
perfezione delle diverse realtà viventi, il valore specifico della vita umana personale
(in cui il credente non stenta a riconoscere impressa l’immagine del suo Creatore),
tale valore però rischia di venire in parte offuscato dall’esperienza del dolore, della
morte, dell’infelicità, del peccato: di fronte a tali realtà l’enigma dell’umana
esistenza si fa più fitto, ma la nostra intelligenza si rifiuta di proclamarne
irrevocabilmente il non-senso e, in qualche modo, ne “postula” un significato ad un
livello superiore. Di fronte a questa aspirazione suprema dell’uomo la fede viene
incontro all’umana ragione con la rivelazione del significato salvifico del dolore di
Cristo che, liberando dal peccato, libera anche dalla sofferenza e dalla morte e
conferisce un senso al nostro stesso soffrire terreno in attesa della promessa felicità
futura.
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
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Umanizzazione ed organizzazione della cura ambulatoriale e
domiciliare dell’ammalato oncologico
ATTI del Terzo Congresso Nazionale di Supportoterapia in Oncologia;
Roma 14 - 15 marzo 1984
Introduzione al congresso del Prof. Attilio Romanini (Ordinario di Radiologia e
primo Direttore Sanitario del Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” di Roma)
Dieci anni fa, quando ci incontrammo nel primo corso convegno sulla
Umanizzazione della Medicina, organizzato prima in Europa, dalla nostra
Università, concentrammo la nostra attenzione sulle necessità di supporto, non
sanitario, dell'ammalato ricoverato in ospedale. Quella riunione fu la scintilla da cui
scaturì il volontariato clinico che tanto ha fatto tra noi ed ha portato qui a poco a
poco al ricupero dei valori che sempre caratterizzavano il rapporto tra personale
sanitario e ammalato. Rapporti che negli ultimi anni erano stati gravemente
compromessi per l'avvento nei nostri ospedali della lotta politica e sindacale da un
lato e della burocratizzazione dall'altro.
Questo riferimento ha uno scopo preciso, ci troviamo in presenza di una nuova crisi
nella cura dell'ammalato, crisi che colpisce-soprattutto l'ammalato inguaribile nella
fase terminale della sua malattia.
I nostri ospedali infatti, progettati per l'assistenza all'ammalato acuto, sono poco
adatti per la cura di questi ammalati che, in genere, non hanno bisogno tanto
di cure attive, quanto di una terapia di supporto e di tanto calore d'affetto umano.
Si tratta di assistenza sanitaria assai meno costosa di quella dell'ospedale per acuti e
assai più gradita anche perché, l'esperienza ci insegna, che essa può esser data nella
maggior parte dei casi, al domicilio dell'ammalato o in piccole strutture che per loro
natura devono avere più affinità colla casa che coll'ospedale. si veda ad esempio
l'esperienza degli "Hospice programs" in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
Questo tipo di assistenza è stato incluso dal legislatore nella Riforma Sanitaria del
1978. si tratta però, come sappiamo, nel nostro caso, di una Riforma progettata da
un architetto ardito ed antiveggente che peraltro, proprio per l'arditezza sua, ha
messo non poco in difficoltà gli ingegneri che devono realizzarla. La difficoltà è
particolarmente sentita perché non esistono in Italia sperimentazioni su cui potersi
basare per l'attuazione su vasta scala.
Abbiamo ritenuto opportuno proporre questo argomento come oggetto del convegno
di quest'anno, non solo per la sua urgenza ma anche e soprattutto perché il nostro
gruppo raccoglie persone fortemente interessate ed impegnate nella realizzazione e
proprio soltanto da professionisti autoresponsabilizzantisi come noi può nascere
quella sperimentazione (atta a risolvere problemi magari parziali) che può fornire
una conoscenza oggettiva a chi ha, per legge, il dovere di attuare, su tutto il
territorio nazionale, quell'assistenza domiciliare e ambulatoriale strettamente
integrata con quella ospedaliera, che forma uno dei concetti "fondamentali della
Riforma Sanitaria in attuazione.
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
18
Unità di Cura Continuativa (UCC)
Soluzione più umana ed economica per la cura dell'ammalato oncologico in fase
terminale
Attilio Romanini; Rivista bimestrale: Progressi Clinici, 1988
L'indiscusso aumento di efficacia delle cure antiblastiche e di quelle di supporto
consente oggi di guarire molti pazienti che quindici anni fa non avrebbero potuto
esserlo ed inoltre di prolungare notevolmente la vita della maggior parte dei pazienti
inguaribili.
La cura di questi ultimi si effettua nello spazio di parecchi mesi, quasi sempre di anni
durante i quali si possono distinguere due fasi. La prima di relativo benessere
durante la quale il paziente svolge una vita quasi normale, detta «fase di stato» e la
seconda di più o meno rapido declino, durante la quale si assiste al più o meno
rapido venir meno della possibilità di vita indipendente dapprima, e poi delle varie
funzioni vitali dell'organismo.
Tutto ciò rende necessaria una impostazione terapeutica completamente differente da
quella che deve essere tenuta nei pazienti in cui elevate sono le possibilità di ottenere
una guarigione clinica durevole.
Da un lato infatti, è necessario attuare la terapia antiblastica con modalità
tipicamente palliative, evitando cioè di determinare al paziente sofferenze, pur
ottenendo una regressione della neoplasia, od almeno un rallentamento della sua
evoluzione.
Dall'altro lato è ancora più necessario, se non addirittura indispensabile, attuare nel
modo più completo le varie terapie di supporto così da assicurare al paziente una
qualità di vita quanto migliore possibile.
Tra queste è indispensabile evitare all'ammalato un senso di solitudine; in
particolare che egli abbia l'impressione di dover affrontare da solo la sua malattia,
curato cioè or da questo or da quel gruppo di medici nessuno dei quali si sente
responsabile di lui, di risolvere i suoi problemi.
Se questo è vero per ogni malattia ed anche nel campo oncologico per gli ammalati
destinati a guarire, lo è in modo tragico per gli ammalati inguaribili.
In questi ammalati la necessità di integrare interventi specialistici differenti aggrava
il problema che è reso ancor più attuale dall'illogica separazione oggi esistente
anche da noi tra medicina domiciliare ed ospedaliera.
È estremamente opportuno che tutti gli ammalati inguaribili, ed in modo particolare
quelli oncologici, siano curati da un'unica equipe sanitaria che sia in grado di
assisterli sino alla loro morte, e nel con tempo sia in grado:
1) di consentire loro, nella « fase di stato» della malattia, una vita rimanente
quanto più gradevole e, a questa condizione, lunga possibile. (Prolungare la
vita di un paziente senza essere in grado di alleviarne le sofferenze sarebbe
crudeltà). Da questo principio è possibile derogare solo su espressa richiesta
fatta dal paziente per motivi personali suoi, che il medico può sindacare solo
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
19
sino al punto da essere certo che quella è realmente la volontà del suo
paziente;
2) di assicurare loro, nella «fase terminale» della malattia, non solo la
soppressione dei dolori e la minimizzazione delle sofferenze non sopprimibili,
ma anche il determinante supporto psicologico di sapere che pur
nell'aggravarsi del proprio stato l'equipe terapeutica (che l'ha curato per anni,
e è diventata perciò stesso gruppo di amici cui lui ha affidato la sua vita) non
lo abbandona ora che chiaramente è destinato a morire, ma anzi rimane
accanto a lui, responsabile della sua cura sino alla fine, amici attivamente
accanto all'amico, che muore;
3) di essere disponibile ed attrezzata a curarlo anche a casa sua
Per la maggior parte degli ammalati (e dei loro familiari) morire in ospedale è
estremamente traumatizzante sia sul piano fisico che su quello psicologico.
Essi vi si rassegnano solo in quanto non esistono concrete possibilità di agevole cura
domiciliare.
Se ciò attualmente si verifica ancora su vasta scala, pur essendo più costoso
dell'assistenza specialistica domiciliare, è solo per un residuo della separazione tra
cura domiciliare ed ospedaliera realizzata, per motivi organizzativo-finaziari,
durante gli ultimi lustri della gestione INAM.
L'attuale legge sul Servizio Sanitario Nazionale stabilisce infatti l'unicità strutturale
della cura dell'ammalato (nell'ambito dell'Unità Sanitaria Locale) e pertanto, sul
piano concettuale, viene pienamente incontro al desiderio degli ammalati di essere
curati a casa loro nella « fase terminale » della loro vita, e non nell'igienico e freddo
squallore di una stanza d'ospedale.
Esistendo le premesse giuridiche è ora necessario realizzare praticamente questa
modalità terapeutica.
A questo scopo è possibile far tesoro dell'ampia esperienza della cura domiciliare di
questi pazienti attuata oltre oceano dagli Hospice Programs (Kutscher 1985).
La loro esperienza però non è trasferibile come tale in Italia sia per la grande
differenza socio-psicologica esistente tra il nostro ed il loro modo di vivere che per
l'ancor maggiore differenza tra le legislazioni sanitarie delle due nazioni.
Essa però può essere ampiamente utilizzata nell'integrare funzionalmente le nostre
strutture sanitarie così da curare in modo unitario gli ammalati che lo desiderano;
integrazione realizzabile mediante l'adattamento delle nostre strutture che va sotto il
nome Unità di Cura Continuativa (UCC) e ha le seguenti caratteristiche:
a) L'UCC ha come oggetto delle sue cure l'intero gruppo familiare e non il solo
ammalato. Malato + familiari sono considerati un tutt'uno che va aiutato.
b) L'UCC è la continuazione domiciliare delle cure che l'ospedale normalmente
fornisce nelle degenze e nei day-hospital e che il medico di famiglia, da solo non è
in grado di attuare.Essa consente anzi di dimettere precocemente il paziente in
cura domiciliare e ricoverarlo nuovamente in modo altrettanto agevole quando
nuova sintomatologia faccia ritenere opportune cure che solo l'ospedale può
consentire.
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
20
c) L'UCC non è né un reparto né una nuova specializzazione terapeutica. Essa
infatti è essenzialmente una organizzazione di assistenza infermieristica e
volontariale generica, che utilizza le competenze specialistiche più varie,
integrandole al fine di ottimizzare la cura del paziente.
d) A tale scopo l'UCC ha una struttura semplice e ad un tempo particolarmente
funzionale. Diretta da un medico coadiuvato da un infermiere esperto dotato
anche di capacità organizzative, essa è costituita da due distinti gruppi di
persone:
• un gruppo operativo costituito da infermieri e volontari, che effettuano
l'assistenza domiciliare.
• un gruppo di consulenza composto da medici delle diverse specialità e da
psicologi preparati nel campo, assistenti sociali e spirituali.
e) Operativamente infermieri e volontari, scelti tra persone motivate e
particolarmente equilibrate dal punto di vista psicologico, si recano due o più
volte la settimana a casa dei pazienti assistiti per svolgervi l'assistenza e la
terapia prescritta dai medici dell'UCC cui riferiscono le notizie cliniche dei
pazienti assistiti, per averne eventuali variazioni terapeutiche. Queste discussioni
avvengono, quando possibile, in incontri di gruppo in presenza dei componenti il
Gruppo di Consulenza più interessati (medici specialisti, psicologi, assistenti
sociali e spirituali). A questi gli infermieri espongono non solo l'evolversi della
malattia del paziente ma anche i problemi familiari che colla sua assistenza si
interconnettono onde poterne avere i consigli opportuni. Compito loro è infatti
non solo il guidare i parenti nella cura del malato, ma anche l'assistenza ai
parenti stessi, che in questa fase possono presentare scompensi sul piano psicoaffettivo
anche gravi. I medici e gli altri componenti del gruppo di consulenza
intervengono raramente a domicilio del paziente, sebbene ciò sia tutt'altro che
escluso. Tutt'altro che raro è invece l'intervento domiciliare dell'assistente spirituale.
f) L'UCC, sul piano organizzativo, può assumere fisionomia differente. Può essere
parte del presidio ospedaliero così come gli ambulatori ed il Day Hospital, od
essere struttura differente da quella ospedaliera (Gruppo di Volontariato,
Cooperativa terapeutica, ecc.). Essenziale è la stretta collaborazione tra medici
curanti in ospedale e componenti dell'UCC affinché il malato ed i suoi familiari si
sentano sempre rispettivamente curato e guidati dallo stesso gruppo di sanitari.
Questo fa in genere preferire le soluzioni direttamente parte dell'ospedale o di cui
facciano parte integrante sanitari, infermieri e personale dei vari livelli di
competenza dell'ospedale. Il carattere determinante della sua funzione sul piano
del supporto psicologico dell'unità paziente-famiglia fa ritenere preferibile la
realizzazione della UCC come parte integrata nella divisione ospedaliera. Meglio
si realizza infatti così la continuità della cura dell'ammalato, usque ad finem, da
parte della stessa equipe.
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
21
Oggi quando l'ammalato non è più abbisognevole di cure ospedaliere, viene dimesso
e avverte un troncarsi del legame con i sanitari dell'ospedale; legame che gli apporta
quel senso di sicurezza, di sostegno psicologico proprio del rapporto di fiducia.
Nel caso di malattia prolungata od a prognosi infausta questo legame è di solito
sostituito in modo altrettanto efficiente da quello con il medico di famiglia. Cio è
dovuto in parte al fatto che in genere quest'ultimo ha difficoltà organizzative
concrete ad attuare stretta collaborazione con i metodi dell'ospedale ove pure ha
indirizzato il paziente. Quasi sempre è privo di collaborazione infermieristica e,
pertanto, gli risulta piuttosto difficile proseguire a domicilio dell'ammalato
l'assistenza specialistica di cui questi ha bisogno. Pure difficile gli è spesso ottenerne
nuovamente, se necessario, il ricovero in ospedale.
Tutto ciò fa sì che la dimissione dall'ospedale possa essere sentita da questi ammalati
come un abbandono da parte dei curanti e che i parenti si sentano improvvisamente
«responsabili» delle cure ulteriori di cui l'ammalato ha bisogno; situazione
psicologica tutt'altro trascurabile in presenza di una prognosi infausta a non lunga
scadenza.
L'UCC sopprime tutto questo dando un valore permanente al legame terapeutico e al
rapporto di fiducia tra sanitari, ammalato e parenti.
L'ammalato non si sente più «dimesso» ma sa che va a casa senza interrompere le
cure, sa che sarà seguito anche a casa, dal gruppo di sanitari dell'ospedale, in
collaborazione (ove possibile) col medico di famiglia del paziente di cui l'UCC
diviene ad un tempo consulente e, tramite la sua struttura infermieristica
collaboratore diretto.
Parenti ed ammalato sanno inoltre che qualora si verifichi la necessità di un nuovo
ricovero questo potrà avvenire senza difficoltà perché l'ammalato è sempre in carico
terapeutico all'ospedale.
I parenti, a loro volta, si sentono sempre supportati dall'equipe dell'UCC che
provvede a consigli ed aiuti non solo nel campo sanitario ma anche in quello sociale
e psicologico.
Particolarmente importanti questi due ultimi in caso di morte dell'ammalato e perciò
stesso prolungati, quando necessari anche durante il periodo immediatamente
successivo all'exitus.
Compito dell'UCC è infatti la cura del malato e della sua famiglia come un
tutt'unico.
L'assistenza domiciliare, come è noto è assai meno costosa di quella ospedaliera.
Sull'argomento esistono tutta una serie di ricerche specificamente impostate che
consentono di affermare non solo l'esistenza di un risparmio netto ma anche che esso
oscilla attorno al 40% (Pontarollo 1985).
Nell'attuale situazione sanitaria italiana la cosa non sembra trascurabile.
L'UCC come mezzo di assistenza domiciliare trova un ovvio limite là ove il paziente
vive solo e non ha parenti che lo possano ospitare in casa propria (evenienza
relativamente rara in Italia) o quando la casa non sia idonea alla cura domiciliare
del paziente nella fase terminale della malattia.
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
22
In questi casi ovviamente il paziente dovrà continuare ad essere curato in ospedale
come ora avviene, o se opportuno in un ospedale più vicino al domicilio
dell'ammalato così da favorire l'accesso dei parenti.
Il caso però, in base alla nostra esperienza non è molto frequente.
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
23
Documenti on-line
www.ghirotti.org
www.uciim.it
www.aiiro.it
www.unicatt.it
www.policlinicogemelli.it
www.portaledibioetica.it
Indichiamo di seguito una sobria lista di documenti, utili per approfondire il tema, tra quelli
attualmente presenti sul Portale di Bioetica.
1) Tema caldo Eutanasia [http://www.portaledibioetica.it/documenti/000632/000632.htm]: si
tratta di un'area del Portale che raccoglie articoli e contributi sul tema dell'Eutanasia ed
un'insieme di problematiche ad esso collegate, tra cui la questione - frutto di un
fraintendimento culturale - della "morte pietosa" come modalità per porre fine alle
sofferenze di una persona.
2) Documenti del Comitato Nazionale di Bioetica:
• Conflitti d'interessi nella ricerca biomedica e nella pratica clinica (8 giugno 2006)
[http://www.portaledibioetica.it/documenti/003529/003529.zip]
• Bioetica e diritti degli anziani (20 gennaio 2006)
[http://www.portaledibioetica.it/documenti/003378/003378.zip]
• La terapia del dolore: orientamenti bioetici (30 Marzo 2001)
[http://www.portaledibioetica.it/documenti/001720/001720.htm]
• Etica, sistema sanitario e risorse (17 Luglio 1998)
[http://www.portaledibioetica.it/documenti/001725/001725.pdf]
• Parere del CNB sulla convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e la biomedicina (21 Febbraio
1997) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/001732/001732.htm]
• Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana (14 Luglio 1995)
[http://www.portaledibioetica.it/documenti/001671/001671.htm]
• Bioetica e formazione nel sistema sanitario (7 Settembre 1991)
[http://www.portaledibioetica.it/documenti/001748/001748.htm]
• Parere sulla proposta di risoluzione sull'assistenza ai pazienti terminali (6 Settembre 1991)
[http://www.portaledibioetica.it/documenti/001670/001670.htm]
3) Magistero Chiesa cattolica:
• Il rispetto della dignità del morente. Considerazioni etiche sull'eutanasia. (Pontificia Accademia per la vita
- 9 Dicembre 2000) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/000300/000300.htm]
• "Evangelium vitae" Lettera enciclica (Giovanni Paolo II - 25 marzo 1995)
[http://www.portaledibioetica.it/documenti/000376/000376.htm]
• "Donum vitae" (Congregazione per la dottrina della fede - 22 Febbraio 1987)
[http://www.portaledibioetica.it/documenti/000399/000399.htm]
• Dichiarazione sull'eutanasia (Congregazione per la dottrina della fede - 5 Maggio 1980)
[http://www.portaledibioetica.it/documenti/000281/000281.htm]
4) Altre chiese e confessioni religiose:
• Eutanasia e suicidio (Gruppo di lavoro Valdese)
[http://www.portaledibioetica.it/documenti/000380/000380.htm]
• Quando la sofferenza ha un limite (programma radiofonico ebraico)
[http://www.portaledibioetica.it/documenti/000363/000363.htm]
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
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SCHEDA IDENTIFICATIVA DELL’ELABORATO Riferimenti della Scuola
• Denominazione:
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• Indirizzo:
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• Telefono:
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• Dirigente Scolastico
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Riferimenti della Classe
• Classe:
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• Insegnati che hanno guidato gli alunni nell’elaborazione dei lavori
(Cognome e nome)
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• elenco degli alunni che hanno partecipato al lavoro
(Cognome e nome)