da TuttoscuolaNEWS
Abolire i voti bassi. Pro e contro
Si è molto parlato nei giorni scorsi della proposta del preside di uno dei più noti licei di Milano, il Berchet, di escludere in sede di scrutinio i voti inferiori al quattro con la motivazione che “i due e i tre creano troppa frustrazione nei ragazzi”. Il Collegio dei docenti, chiamato a deliberare in materia, ha preferito per il momento rinviare ogni decisione.
Si è subito aperto, o meglio riaperto, il confronto sull’argomento tra chi, come il preside del Berchet, ritiene i voti bassi controproducenti perché demotivanti, causa di frustrazione e di perdita dell’autostima, e chi invece li ritiene utili per spronare gli studenti a impegnarsi di più, sempre che l’insegnante sappia accompagnare il voto con opportune azioni di sostegno e rimotivazione dell’alunno.
Un rapido sondaggio condotto da Tuttoscuola tra alcuni insegnanti interpellati sul tema mostra che soprattutto nel primo ciclo la maggioranza è d’accordo con il preside, mentre tra i docenti di scuola secondaria superiore i pareri sono più discordi, con prevalenza di coloro che sostengono che la scala decimale vada usata tutta. Non solo perché è quanto dispone la normativa vigente ma per ragioni di trasparenza: se fosse stabilito che non si può dare voti inferiori a quattro lo studente (e la sua famiglia) non avrebbero una piena consapevolezza del livello effettivo di insufficienza indicato da quel voto, se grave (un quattro ‘normale’) o gravissima (un quattro dietro il quale si nasconde un tre o un due).
Come si vede ci sono pro e contro l’abolizione dei voti bassi, o meglio bassissimi, mentre è largamente condivisa l’opinione che in ogni caso l’assegnazione del voto è solo una parte, e nemmeno la più importante, dei compiti educativi che spettano al docente.
C’è anche chi sostiene che si debba sempre usare l’intera scala dei voti, da uno a dieci, ma che ai voti bassi, e anche bassissimi, non debba corrispondere la bocciatura con conseguente ripetizione dell’anno scolastico.
A favore di questa posizione sta la constatazione che in testa alle classifiche comparative internazionali, come quelle che scaturiscono dalle indagini Ocse-Pisa sui quindicenni, stanno Paesi come la Corea, il Giappone, la Finlandia e altri dove la ripetizione dell’anno non è prevista e le percentuali di dispersione fino ai 18 anni sono vicine allo zero.
Una linea di questo tipo, se fosse adottata in Italia, si porrebbe in controtendenza con quanto deciso con il ripristino dei voti nel primo ciclo e l’obbligo della sufficienza in tutte le materie, e quindi sarebbe di difficile praticabilità politica, ma presenterebbe numerosi vantaggi, che sono quelli riassunti nel rapporto Ocse-Pisa che ha evidenziato il migliore funzionamento dei sistemi scolastici non selettivi: miglioramento dei risultati complessivi, minore incidenza della provenienza sociale, aumento dell’autostima e del senso di appartenenza al gruppo classe e alla scuola e riduzione del gap tra scuole eccellenti e scuole scadenti.
Si tratterebbe di consentire il passaggio all’anno successivo a tutti gli studenti o quasi, come già avviene nel primo ciclo, ma certificando l’effettivo livello di apprendimento raggiunto da ciascun alunno nelle singole discipline e attività e stabilendo standard minimi (non medi) nelle aree strategiche oggetto delle indagini internazionali (IEA, oltre che Pisa): lettura, matematica e scienze, cui si potrebbe aggiungere una lingua straniera e l’ICT.
All’esame conclusivo degli studi secondari gli studenti non dovrebbero sostenere prove nelle discipline dove il giudizio della scuola è stato inferiore allo standard minimo di sufficienza, e nella certificazione dei risultati conseguiti tale valutazione dovrebbe comparire con i conseguenti effetti preclusivi sulla successiva scelta dei percorsi universitari, post-secondari e di lavoro. Il candidato potrebbe così essere valutato solo nelle materie dove ha ottenuto buoni risultati, con effetti di positivo orientamento per le sue scelte successive.