Il paese senza

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Il paese senza

Messaggiodi edscuola » 20 gennaio 2008, 11:33

da Corriere della Sera

Il paese senza
Le riforme mancate

E' stato definito il più disincantato e sprezzante commiato dagli anni Settanta. Un Paese senza di Alberto Arbasino è un libro destinato a restare nella memoria collettiva e non è proprio un caso che ieri il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, abbia colto al volo l'occasione per citarlo. Perché, pur volendo evitare rigidi paralleli tra ieri e oggi, l'Italia di inizio 2008 è ancora un Paese senza. La nostra rimane una modernizzazione zoppa, uno sviluppo altamente industrializzato al quale non hanno mai fatto seguito le giuste riforme. Come se avessimo incassato tutte le conseguenze negative della modernità e non fossimo stati in grado di sfruttarne le potenzialità per aprire la società e renderla competitiva. La scuola italiana è uscita clamorosamente bocciata dall'ultima ricerca Ocse perché un quarto dei quindicenni meridionali non è in grado di interpretare correttamente le informazioni contenute in un testo. Continuiamo ad avere un basso tasso di attività femminile visto che solo 46 donne su 100 sono occupate. E il mercato del lavoro è drammaticamente spaccato in due tanto d'aver creato tra padri e figli quella che Pietro Ichino chiama apartheid. Ma prendiamo il caso del giorno: il potere d'acquisto di salari e stipendi. Tutti sono più o meno d'accordo che è necessario un recupero ma molti mentre lo sostengono sognano una scorciatoia.

Magari un tratto di penna che modifichi le aliquote Irpef e un tesoretto- tris da spendere a pioggia perché-presto-o-tardi-ci-toccherà- votare. A tutti i sognatori che affollano il centrosinistra, i pochi ingenui e i tanti smaliziati, Draghi ha mandato a dire che gli sgravi fiscali non si possono pagare a debito bensì devono essere finanziati dal taglio della spesa pubblica. E se il reddito pro capite in Italia è più basso che altrove, la causa è «la dinamica stagnante della produttività». Potrà sembrare una sottolineatura da accademico, in realtà è un atto d'accusa. Per accrescere salari e produttività la cosa da fare è relativamente semplice: riformare l'anacronistico sistema delle relazioni industriali made in Italy e decentrare la contrattazione. Si poteva cominciare più di tre anni fa e invece in un pomeriggio romano del luglio 2004 Guglielmo Epifani rifiutò le proposte della Confindustria e abbandonò la stanza del negoziato. Da allora si è perso il bandolo della matassa. Sincero con ministri e sindacalisti su tasse e salari, il governatore lo è stato altrettanto con i banchieri. E' vero che la transizione del sistema creditizio è andata avanti, forse di più di quanto abbiano saputo fare nei rispettivi campi la politica e l'imprenditoria, ma «l'opera non è terminata ». Si deve risolvere ancora il nodo delle Popolari, si deve lavorare sulla governance delle grandi banche perché abbia carattere innovativo e non duplichi ruoli e competenze, ma si deve affrontare hic et nunc la crisi strutturale dei fondi comuni italiani. Che stanno perdendo credibilità. La Banca d'Italia da tempo ha chiesto agli operatori l'autoriforma. Ma, parole di Draghi, «la risposta finora è stata deludente».

Dario Di Vico
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