Il 24 novembre p.v. si terrà la prima udienza davanti al giudice del lavoro di Brindisi, con la discussione del primo di un corposo numero di ricorsi di dirigenti scolastici salentini – frutto dell’ostinazione della Dirpresidi di Lecce, fattasene promotrice e poi affidati al patrocinio dell’avv. Rascazzo del foro di Brindisi – al fine di ottenere la perequazione interna di una categoria, assurdamente assoggettata a tre regimi retributivi pur nello svolgimento della medesima funzione!, e l’equiparazione retributiva con la dirigenza amministrativa e con la dirigenza tecnica del medesimo datore di lavoro; sicuramente meno complesse, con la seconda che non è neanche dirigenza, in senso proprio, bensì solo attributaria di «posizione dirigenziale», priva di poteri (e responsabilità) di gestione perché priva di personale da gestire e priva di ufficio o struttura organizzativa.
E’ la prima, significativa e concreta tappa di un contenzioso risolutamente avviato sin da quando – e non è stato difficile risultare, purtroppo, tristi profeti – si era inequivocabilmente compreso che il CCNL 2006-09, poi sottoscritto dalla pentiade rappresentativa (sic!) il 15 luglio 2010, avrebbe consumato l’ennesima presa per i fondelli: quattro spiccioli, traduzione monetaria dei pregressi tassi d’inflazione programmata al ribasso, raccattati dopo mesi e mesi di estenuanti ma finte trattative – finte perché le cifre erogate non sono aumentate neanche di un euro rispetto a quanto inizialmente messo sul piatto dall’amministrazione – e spacciate per un risultato che il pudore dell’ultimo momento ha derubricato in «accettabile». E’ seguito il subitaneo abbandono della minacciata via giudiziaria da parte delle generaliste corazzate CGIL e CISL, pure minoritarie nella dirigenza scolastica e tuttavia le vere padrone degli infiniti, ed inutili, tavoli negoziali; con UIL e SNALS a fare da contorno e con l’ANP, relativamente maggioritaria nella categoria, ridottasi a firmare comunicati congiunti da loro dettati, dopo quattro anni di inazione in cui ha coltivato, in orgogliosa solitudine, l’illusione che un gorverno «amico» potesse tirar fuori dal magico cilindro equiparazione interna e perequazione esterna. Di più, consapevole – l’ANP – del bluff di CGIL e CISL, si era premurata in anticipo a diffidare i «venditori di fumo» e a rendere edotti – facendosi forte di un parere pro veritate commissionato ad un illustre giuslavorista, profumatamente pagato – i sempre più depressi colleghi (iscritti e non) che perequazione ed equiparazione potevano trovare soluzione solo con il contratto e non affidandosi al giudice, «non suscettibili, per difetto di giurisdizione e per incompetenza, di essere affrontate e risolte da un giudice del lavoro»!!!!
Lasciamo alla valutazione dei colleghi quanto sia «accettabile» un contratto che allarga in cifra assoluta, anziché restringere, la forbice retributiva con le dirigenze amministrativa e tecnica (facile: il tasso di inflazione è uguale per tutti, ma le basi che lo hanno tradotto in moneta cospicuamente differenziate) e quanto sia «accettabile» la contorta, e per molti versi sublime, dichiarazione congiunta n. 1, allegata all’accordo sottoscritto, «di rinviare al prossimo rinnovo contrattuale [e sono quattro!], nel rispetto delle autonome determinazioni del comitato di settore l’ulteriore esame delle connesse problematiche e la definizione delle più opportune soluzioni, nella direzione del …. riallineamento retributivo». E, giusto a voler puntualizzare, il prossimo rinnovo contrattuale non è quello del triennio 2010-2012, perché se ne potrà (iniziare a) parlare non prima del 2014, in seguito all’ultima manovra tremontiana che, bloccando, sia per la parte economica che per la parte giuridica, la contrattazione sino a tutto il 2013, ha altresì mandato virtualmente al macero l’«epocale» riforma Brunetta.
Ma torniamo al ricorso. Noi «venditori di fumo» attendiamo il 24 novembre, consapevoli – naturalmente – che l’esito non sarà risolutivo. Chi soccomberà ricorrerà in appello e poi al vaglio della corte di cassazione. Ma non finirà qui, perché la partita decisiva potrebbe giocarsi a Strasburgo, davanti alla corte europea di giustizia.
E il giudice comunitario va alla sostanza delle cose, senza farsi irretire da mere qualificazioni formali, perché i suoi parametri di giudizio sono il divieto di discriminazione tra funzioni lavorative «comparabili», nonché la piena ed effettiva tutela delle posizioni giuridiche soggettive. E se si va alla sostanza è ben difficile rinvenire una ragione giustificativa che inchioda la dirigenza scolastica ad un trattamento retributivo che, nel tempo, in luogo di restringere ha dilatato le distanze con le
meno complesse, ex lege, dirigenza amministrativa e dirigenza tecnica, di pari seconda fascia, che però arrivano a percepire una remunerazione quasi doppia.
Ma alla sostanza può – e dovrebbe – ancor prima appellarsi direttamente il giudice nazionale, applicando – in una materia congiuntamente regolata da fonti interne e da fonti comunitarie – queste ultime che – com’è noto – prevalgono su leggi, contratti, accordi nazionali (e financo su disposizioni costituzionali purché elevabili a principi fondamentali); pertanto disapplicabili se introducono o perpetuano discriminazioni tra soggetti «comparabili» (cosa che, nel caso di specie, non pare essere dubbia) non fondate su ragioni oggettive. E tali non sono i, presunti o reali, vincoli di bilancio, peraltro reiterati da dieci anni (e da tre contratti collettiva nazionali) sì da essere privi del carattere dell’eccezionalità.
Ragioni, comunque e pur sempre, sottoponibili al pieno, autonomo apprezzamento del giudice: ciò che è avvenuto in un recente caso portato alla cognizione della magistratura del lavoro di Siena.
E’ una sentenza del 27 settembre 2010 che, pronunciando sulla domanda principale del ricorso, ha proprio richiamato il diritto comunitario nello statuire la trasformazione in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato di una serie di contratti a tempo determinato stipulati con una docente senza sostanziale soluzione di continuità, con assunzione dal 1° settembre sino al termine delle attività didattiche (30 giugno) e poi riassunzione dal successivo 1° settembre. Astraendosi dalla fattispecie concreta, sono interessanti i principi affermati dal giudice, così schematizzabili:
1. Il rapporto di lavoro a termine si giustifica solo se serve a far fronte a situazioni transitorie ed eccezionali;
2. se invece, nella sostanza, si tratta di un’esigenza lavorativa istituzionale (per garantire la continuità del servizio), ordinaria, corrente nel tempo, non può avere alcun rilievo un contratto collettivo nazionale (o una legge) che pure consente all’amministrazione di
assumere – licenziare – riassumere un soggetto di cui, in concreto, si serve senza soluzione di continuità;
1. il fatto che la legge (art. 36,5° comma, d.lgs. 165/d) vieti, comunque, la trasformazione del rapporto di lavoro a termine in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, al massimo riconoscendo il risarcimento del danno, non consente al lavoratore precario una piena ed effettiva tutela perché non sana il divieto di discriminazione con lavoratori «comparabili» (tutti ugualmente docenti, che svolgono, per quantità e qualità, la stessa prestazione) e non è idonea a sortire effetti dissuasivi nei confronti di un’amministrazione, che così si sente investita da una sorte di «licenza e precarizzarre»;
2. pertanto, in applicazione del prevalente diritto comunitario, che fa perno sul duplice principio del divieto di discriminazione e della piena ed effettiva tutela di posizioni in concreto equivalenti siccome «comparabili», si può e si deve – come in effetti è stato sentenziato nel caso in discorso – disapplicare il diritto interno (leggi, anche costituzionali, e/o contratti) ed applicare il diritto comunitario.
Forse il 24 novembre, o su di lì, potrebbe esserci qualche sorpresa. E non solo per i «venditori di fumo».
Attilio Fratta
presidente nazionale Confedir-Dirpresidi
Salvatore Indelicato
vicepresidente nazionale
Confedir-Dirpresidi
Francesco G. Nuzzaci
responsabile nazionale per la formazione Confedir-Dirpresidi