LE RAGIONI (E IL TORTO) DELLA CISL
di Pietro Ichino
NEGLI ULTIMI 60 ANNI IN TUTTI I CASI IN CUI VI È STATA CONTRAPPOSIZIONE SU QUESTIONI CRUCIALI TRA CGIL E CISL, ERA QUEST’ULTIMA AD AVERE RAGIONE – MA ULTIMAMENTE LA CISL HA SBAGLIATO RIFIUTANDO UN INTERVENTO LEGISLATIVO SU RAPPRESENTANZA E CONTRATTAZIONE
Articolo pubblicato sul Corriere della Sera, nella rubrica Lettera sul lavoro, il 6 maggio 2011 - In argomento leggi anche il mio editoriale Il falso fa più male dei candelotti, pubblicato sul Corriere della Sera il 7 ottobre 2010
Caro direttore, i dirigenti della Cgil, e della Fiom in particolare, che un giorno sì e
uno no accusano la Cisl di tradimento farebbero bene a leggere il libro di Guido Baglioni
La lunga marcia della Cisl, fresco di stampa per i tipi del Mulino. È una lettura che aiuta
ad accantonare le polemiche contingenti e a guardare i fatti dell’oggi alla luce di quelle
di ieri e dell’altro ieri. Non solo la Cgil, ma anche l’intera sinistra politica italiana, se
riconsidera serenamente questa storia, deve riconoscere che, negli ultimi sessant’anni,
nei casi di più netta contrapposizione fra il blocco Cgil-sinistra e la Cisl, era per lo più
quest’ultima ad avere ragione (non lo nota con compiacimento uno che, come chi scrive,
ha lavorato nella Cgil per 10 anni e vi è iscritto da 41).
Non sto dicendo che il sindacalismo Cisl sia esente da difetti: ne ha almeno
altrettanti quanti ne hanno gli altri. Sto dicendo soltanto che occorre riconoscere alla
Cisl di avere visto giusto su alcune questioni cruciali, sulle quali la Cgil ha registrato
invece un rilevante ritardo. Per cominciare, aveva ragione la Cisl quando, nella prima
metà degli anni 50, predicava la necessità di aprire una stagione di contrattazione
collettiva dentro le aziende; la Cgil in un primo tempo vi si oppose, difendendo il livello
unico nazionale di contrattazione, ma dovette cambiare idea dopo la sconfitta durissima
del 1955 nelle elezioni per le commissioni interne della Fiat e di altre grandi aziende del
Nord. Aveva ragione la Cisl degli anni 70 che rivendicava il riconoscimento del lavoro a
tempo parziale, mentre la Cgil lo osteggiava sostenendo che esso avrebbe determinato
una «ghettizzazione» delle donne nei luoghi di lavoro (quando, nel 1984, si arrivò a
questo riconoscimento, esso avvenne con l’opposizione della Cgil e il voto contrario del
Pci in Parlamento). Aveva ragione la Cisl quando, con la Uil, nel 1984 firmò il «patto di
S. Valentino» ispirato al progetto di Ezio Tarantelli per il superamento della vecchia
«scala mobile» (indicizzazione delle retribuzioni) e avevano torto il Pci e la Cgil che
contro il decreto attuativo di quel patto promossero il referendum, perdendolo l’anno
dopo. Aveva ragione la Cisl quando, con la Uil, avvertiva che la legge Biagi, odiatissima
dalla Cgil e dalla sinistra, non era affatto la «causa del precariato»: tant’è vero che la
sinistra stessa, quando è stata al governo, ha utilizzato proprio quella legge per
combattere gli abusi. Avevano ancora ragione le stesse Cisl e Uil quando hanno firmato
gli accordi alla Fiat di Pomigliano e di Mirafiori con Sergio Marchionne, se è vero che ora
alla Bertone di Grugliasco anche i rappresentanti della Fiom-Cgil hanno dato indicazione
ai lavoratori di votare «sì» sullo stesso piano industriale per evitare la chiusura dello
stabilimento.
Una ragione che invece ben difficilmente la Cgil e la vecchia sinistra riconosceranno
alla Cisl è quella su cui si basò per gran parte degli anni ’60 l’opposizione della stessa
Cisl all’intervento legislativo «pesante», in materia di lavoro e relazioni industriali,
costituito dallo Statuto dei lavoratori. Neanche il Pci, beninteso, in Parlamento avrebbe
poi espresso un voto favorevole su questa legge, ma per ragioni molto diverse. Il Pci non
ne condivideva il contenuto, considerandolo troppo moderato; la Cisl, invece,
disapprovava l’idea stessa che sulla materia intervenisse la legge, togliendo spazio alla
contrattazione collettiva. Qui le visioni della Cisl e della Cgil negli anni ’60 erano agli
antipodi. Per la prima lo strumento principe dell’emancipazione del lavoro era la
contrattazione collettiva; per la seconda, o almeno per la sua corrente maggioritaria,
nel sistema capitalistico anche il contratto collettivo doveva considerarsi come la
marxiana «foglia di fico che nasconde la vergogna della dittatura del padrone
sull’operaio» . Su questo punto finora ha vinto la visione della Cgil. Ed è accaduto un
fatto curioso, di cui il libro di Guido Baglioni non offre forse la chiave di lettura che
occorrerebbe: a sostegno dell’intervento del legislatore si schierarono negli anni ’60
anche giuslavoristi molto vicini alla Cisl, come Gino Giugni e Federico Mancini. E anche
in seno alla Cisl, per tutto il trentennio successivo, la cultura del primato del contratto
ha finito con l’essere offuscata: è parso che la Cisl accettasse il primato della legge,
quasi riconoscendo così che su questo fosse la Cgil ad aver visto giusto. Ma se si guarda
al risultato di quella stagione politico-sindacale, all’ipertrofia mostruosa della
legislazione che ne è derivata, al tasso di ineffettività del diritto del lavoro che ne è
conseguito, con un’intera metà del tessuto produttivo che si sottrae alla sua
applicazione e un’intera generazione di lavoratori che ne resta esclusa, vien fatto di
pensare che anche nella sua preferenza per il contratto collettivo rispetto alla legge
scritta da altri la Cisl degli anni ’60 avesse visto giusto.
Su di un punto, invece, a mio avviso, la Cisl ha sempre sbagliato: nel non
comprendere che il contratto collettivo stesso ha bisogno di regole chiare ed efficaci nei
confronti di tutti, su chi può stipularlo e con quali effetti. Questo è l’unico capitolo sul
quale la legge è mancata completamente; e il risultato, come stiamo vedendo proprio in
questi giorni, è che protagonisti del sistema delle relazioni industriali non sono tanto gli
imprenditori e i sindacati, quanto gli avvocati e i magistrati.