Scuola, se tornano i Fantasmi del passato

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Scuola, se tornano i Fantasmi del passato

Messaggiodi edscuola » 8 novembre 2007, 16:49

da Unità

Scuola, se tornano i Fantasmi del passato
Luigi Galella

Ogni insegnante è obbligato a schematizzare i suoi principi educativi. E se è capace di ascolto, può essere frainteso dagli studenti, che facilmente potrebbero equivocare la sua disponibilità. Nella forbice che allontana o sovrappone permissivismo e tolleranza risiede, a mio avviso, la qualità dell’insegnamento, che sa costruire un rapporto alla pari, ma che all’occorrenza deve intervenire e talvolta punire, per ripristinare la correttezza dei comportamenti e il rispetto delle regole. Ma non può esserci rispetto delle regole se non c’è corresponsabilità, se manca la condivisione dei principi che le fondano. Non ho mai conosciuto un ragazzo, nemmeno tra quelli più duri e difficili, che non fosse capace di «comprendere» il valore di un insegnamento morale, il significato di un rimprovero o la necessità di una sanzione. Anzi, il più delle volte ho osservato che sono proprio i ragazzi ad ergersi a giudici di se stessi, talvolta perfino con troppa severità.
Non mi piace la parola «bullo». Mi sembra un canone linguistico, prima ancora che comportamentale, che si cuce addosso alle persone. Un modo semplice e frettoloso di rivestire il «male» con nuove, comode etichette. Che nell’ottocento si chiamavano Franti e oggi bulli. I Franti del duemila. Mi piacerebbe, invece, che si qualificassero solo i comportamenti negativi, e non le persone che li incarnano.
Spero che la scuola del duemila sappia essere severa, ma anche accogliente e ospitale. Ingenuamente, assecondando un meccanismo psicologico infantile, siamo portati a ritenere che la severità interrompa la relazione, e invece forse ne è il maggiore alimento. Solo con un’azione molto incisiva si può trasmettere l’inviolabilità di un principio come il rispetto. Rispetto della diversità, della differenza religiosa o etnica. Chiunque non lo osservi deve essere consapevole che sarà punito. Così come deve essere chiaro che, in qualsiasi sua forma, la violenza deve essere bandita. Violenza fisica e psicologica. La civiltà della tolleranza si costruisce con il rigore e l’attenzione e non con la perdita di controllo, la superficialità, la sordità delle ragioni dell’altro e il lassismo. Ben vengano le norme ministeriali che permettono alle scuole pene «esemplari», se potranno essere utili a ripristinare, lì dove è necessario, la cultura del rispetto e della legalità. Ma le norme non bastano.
Sono parole vuole se applicate a contesti che non le «comprendono», o che fingono ipocritamente di adeguarvisi. Andrebbe attuata una vera rivoluzione culturale, un nuovo umanesimo della fratellanza, che consenta la migliore convivenza fra le differenze. I recenti fatti di cronaca segnalano, invece, una pericolosa deriva verso altre direzioni. L’episodio di Ischia, innanzitutto. Un ragazzo suicida perché i compagni, anziché eleggerlo a proprio rappresentante, lo dileggiavano. E l’episodio di Roma: un gruppo che malmena a sangue un compagno, per «una resa di conti», come nelle faide di mafia.
Tra violenza fisica e psicologica, talvolta, esiste un confine labile. Tra il mobbing e il pugno, tra la frase denigratoria e lo spintone, tra lo sberleffo e lo schiaffo. Il ragazzo suicida credeva molto nella scuola, ed era tanto volitivo e determinato da essersi allontanato dallo «standard» dei suoi compagni, che lo ritenevano un insopportabile secchione. Tre di loro, quattordicenni, sono stati denunciati alla procura dei minori con l’accusa di violenza privata. A questa purtroppo lui non ha saputo opporre altro se non il gesto del suicidio, che assolutizza la violenza, e la scaglia contro il proprio corpo.
C’è come un filo rosso che si srotola lungo i sentieri della violenza, forma degenerata del potere. E chi non può o sa usare l’uno si serve della sua deformazione isterica. La sua pratica, infatti, nasce dall’assenza del potere e ne rappresenta il suo abietto surrogato. La scuola deve sapersi difendere da essa con la massima fermezza, e tornare alla sua missione educativa più alta, prima ancora che disciplinare, morale e civica. Da questo punto di vista, non sarebbe male se fosse ripristinato l’insegnamento ottocentesco della Morale, così come il moderno, e ugualmente disatteso, dell’Educazione Civica.
Chi perde la bussola deve avere qualcuno che sia in grado di mostrargli la strada. E, vista la latitanza dei genitori, troppo intenti a lavorare e produrre, distratti, frastornati dalla vita di tutti i giorni, chi, se non la scuola? Una scuola che insegni il coraggio, il rigore, l’umiltà, l’onestà. Parole «antiche». Modernissime e necessarie. Anche per tenere lontani quei fantasmi del passato, che credevamo di aver sconfitto per sempre, e che invece spavaldamente si riaffacciano proprio nelle scuole, cercando di fare proseliti fra i giovani. Nascondendosi dietro nuove sigle che inneggiano perfino al Terzo Reich. Perché ogni forma di violenza è destinata, prima o poi, a organizzarsi e ideologizzarsi, rifacendosi al suo archetipo, alla sua forma primigenia più illustre e miserabile.
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