da Tuttoscuola
Si può cambiare la scuola con la destra al governo?
di Fabrizio Dacrema
Ogni considerazione sulla politica scolastica nella nuova era Berlusconi/Gelmini non può prescindere dalla constatazione che l’Italia uscita dalle elezioni è decisamente lontana dalla strategia di Lisbona e dal progetto/sogno europeo di una società aperta che cresce nella globalizzazione puntando sulla conoscenza.
Da qui si deve partire, prima di valutare le prime mosse sulla scuola della destra di nuovo al governo.
Il risultato elettorale descrive una consistente maggioranza del paese alla ricerca di sicurezza e protezione dalla globalizzazione oppure convinta di poter competere puntando sulla deregolazione e la riduzione di costi e diritti.
Un blocco sociale unito dalla paura e dalla sfiducia nelle possibilità del nostro paese di poter seguire gli unici modelli vincenti in ambito Ocse rappresentati da quei paesi che, diversamente dall’Italia, oggi crescono perché negli anni novanta hanno fronteggiato le trasformazioni socio-economiche attraverso riforme e investimenti finalizzati a diffondere saperi e capacità di innovazione, nella società e nel sistema produttivo.
Ed è proprio questo grave ritardo accumulato una delle principali spiegazioni del prevalere di quell’improbabile e fallimentare mix di liberismo e protezionismo proposto dalla destra nel tentativo di sottrarre il paese dalle sfide dell’innovazione e di rallentarne il declino. La bassa qualità del capitale umano (metà della popolazione attiva non va oltre la licenza media e la formazione continua è ampiamente deficitaria) ostacola l’innovazione e, a sua volta, la scarsa propensione delle imprese a innovare frena gli investimenti in formazione e ricerca. Allo stesso modo il gap italiano nei livelli di istruzione e di accesso alla formazione permanente favorisce il prevalere di forze politiche populiste che non perseguono l’obiettivo di innalzare i livelli di sapere di tutti.
Se questo è vero, allora le forze sociali e politiche del centro sinistra devono darsi quale obiettivo prioritario quello di operare per ottenere risultati utili a contrastare il declino socio-economico i cui effetti producono anche comportamenti politici regressivi. La situazione, per altro, è di vera e propria emergenza, non si può perdere un’altra legislatura visto che tra un anno e mezzo dovremmo prendere atto che avremo largamente mancato quasi tutti gli obiettivi che nel 2000 a Lisbona l’Unione Europea si era proposta di raggiungere entro il 2010 relativi all’innalzamento dei livelli di formazione e alla ricerca.
È possibile ottenere risultati positivi sul terreno della conoscenza con la destra al governo?
Un risposta positiva è possibile a due condizioni.
La prima dipende dall’iniziativa che sapremo mettere in campo e dalla capacità di occupare gli spazi nella società e nei territori per migliorare la qualità dell’istruzione, diffondere la formazione permanente, far crescere piani di sviluppo economico basati su ricerca e innovazione che innalzino la specializzazione produttiva delle nostre imprese. Per questi obiettivi, già oggi e ancor più con la piena attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, molte scelte più che dal governo dipendono dalle decisioni locali e dall’iniziativa delle forze sociali: programmazione dell’offerta formativa, sostegno all’innovazione scolastica, costituzione di poli formativi, lotta alla dispersione, orientamento, costruzione del sistema della formazione permanente, diritto allo studio, …
La Cgil, in questa direzione, intende farsi promotrice della presentazione di un disegno di legge di iniziativa popolare sull’apprendimento permanente. Intorno a questa iniziativa daremo vita ad un’ampia campagna per sviluppare consenso sociale sulle misure necessarie per diffondere la formazione permanente dei cittadini e dei lavoratori e attiveremo nei territori e nei posti di lavoro azioni vertenziali e contrattuali per ottenere risultati concreti.
La seconda condizione è ovviamente nelle mani del governo.
Nel suo esordio alla Camera il Ministro Gelmini ha espresso aperture bipartisan: la necessità di “una grande alleanza per la scuola” che superi lo scontro politico e favorisca scelte condivise, volontà di non azzerare i provvedimenti avviati dal precedente governo e di non fare ricorso a leggi di sistema. Merito, valutazione, autonomia sono stati indicati come i criteri di riferimento dell’azione del Ministro.
Tutte intenzioni condivisibili se si tradurranno in scelte finalizzate ad aumentare la qualità della scuola pubblica, il successo formativo di tutti e di ognuno, la mobilità sociale. Sarebbe invece inaccettabile una loro torsione in senso privatistico attraverso l’introduzione del buono scuola e della concorrenza tra le scuole. Queste soluzioni, prospettate nel disegno di legge Aprea, promuoverebbero processi di polarizzazione delle scuole sulla base dell’appartenenza socio-culturale o ideologico-religiosa in palese contrasto con quanto asserito dal Ministro sulla meritocrazia e l’integrazione. Il diffondersi di scuole di eccellenza per i ceti medio-alti che potrebbero permettersele sommando risorse proprie al buono scuola, oltre ad aumentare le disuguaglianze socio-culturali di partenza, non realizzerebbe il contesto più favorevole allo sviluppo dell’eccellenza, invece costituito dal cercare di portare tutti il più possibile ai più alti livelli di successo formativo, come dimostrano i paesi in cima alla classifica Ocse-Pisa (Finlandia innanzi tutto) sia per livelli di inclusione che di qualità. Sarebbe un disastro anche per le prospettive di integrazione sociale e convivenza interculturale degli alunni non italiani inevitabilmente messe a rischio dal diffondersi della polarizzazione scolastica a base etnico-religiosa.
Ha giustamente ricordato Tiriticco che “Compito del Sistema educativo nazionale di istruzione e formazione non è quello di censire e legittimare i meriti, ma di sollecitarli e promuoverli”. Per questo si tratta di finalizzare alla qualificazione della scuola pubblica i processi di cambiamento prospettati, primo fra tutti la ripresa di una politica di investimento nell’autonomia e nel decentramento. Si tratta di attribuire maggiori poteri e risorse a scuole e territori cui deve corrispondere una maggiore capacità di valutazione dei risultati, sulla base dei quali attivare sistemi premianti e compensativi.
Naturalmente è positiva la volontà manifestata dal Ministro di adeguare le retribuzioni degli insegnanti alla media Ocse e di introdurre carriere professionali, temi sui quali è assolutamente inutile e dannoso dilungarsi se non in presenza di proposte e risorse precise e definite. È sufficiente ribadire che l’unico modo per rispettare gli insegnanti come lavoratori dipendenti è di contrattare le questioni inerenti il loro rapporto di lavoro con i sindacati da loro votati e a cui si iscrivono, invece di imporre le soluzione con l’atto unilaterale della legge, come sostiene l’on. Aprea nel suo disegno di legge.
Infine, se è vero che al diffondersi della cultura meritocratica giovano anche le scelte del governo in politica economica e lo stile delle alte cariche istituzionali, che dire della decisione di Tremonti di tagliare quote consistenti di risorse ai progetti di innovazione industriale (come aumentare altrimenti le imprese che assumono giovani qualificati e meritevoli?) per finanziare l’azzeramento l’Ici ai ceti abbienti? Che dire poi di un Premier che raccomanda le veline alla Rai?