da Unità
Allarme scuola: Berlusconi rispolvera le «tre i»
Marina Boscaino
Allarme per tutti gli insegnanti - di ruolo e non di ruolo - per il personale Ata, per i bambini e i ragazzi, per le famiglie: «Dopo la nostra vittoria la riforma della scuola voluta dal sindaco di Milano tornerà in auge, dopo che la sinistra ha voluto metterla da parte». Proprio durante un comizio tenuto nel capoluogo lombardo, Silvio Berlusconi ha definitivamente confermato che il programma sulla scuola del Partito delle Libertà coincide con la cosiddetta (contro)riforma Moratti. La legge 53, neutralizzata temporaneamente dal “cacciavite” del ministro Fioroni che - prevedendo una maggior durata del governo Prodi e non volendo abrogare l’ennesima riforma, cominciò, due anni fa, a depotenziarla - potrebbe ritornare ad essere la puntuale concretizzazione dell’idea arbitraria e mercantile che Berlusconi & C propagandarono sin dallo slogan più famoso della campagna elettorale: la scuola delle “tre i”. Dove, assieme a Inglese e Internet (tributi ad un’idea di modernità ed efficienza solo di facciata, considerato il modo in cui vennero formati gli insegnanti) la faceva da padrona l’impresa; privata, naturalmente.
Per rinfrescarci la memoria, una veloce carrellata sulle più violente prevaricazioni imposte dalla legge Moratti alla scuola pubblica: dove le famiglie potevano decidere se assecondare l’orgoglio per i propri bimbi precoci e iperstimolati, mandandoli a scuola - dell’infanzia e primaria - in anticipo. Anticipo possibile solo nelle zone “bene”, impossibile in quelle ad alta densità demografica: una prima divaricazione su base sociale, che sottolineava destini diversi fin dai primi anni di vita. Destini disomogenei sempre in deroga a quei principi che dovrebbero essere fondanti della scuola pubblica: il portfolio (quasi una parodia, nell’inopportuno uso del linguaggio bancario), vademecum dell’alunno con tanto di attestazioni e interviste ai genitori a base di incursioni nella vita privata, livelli culturale, sociale, economico; il tutor - figura non prevista dal contratto degli insegnanti - ritorno al maestro unico in una logica di risparmio e di pensiero unico, con la repressione di qualunque criterio di collegialità tra gli insegnanti; la soppressione del tempo pieno; i tagli agli insegnanti di sostegno; la laborialità intesa come raggruppamento di bravi con bravi, somari con somari. Infine le Indicazioni Nazionali, i programmi, improntati all’“antropologia cristiana”, contro ogni istanza di laicità della scuola pubblica. Dopo la selezione e l’indottrinamento indotti dal passaggio nella scuola dell’infanzia, elementare e media, il colpo di grazia veniva assestato alla conclusione di questo ciclo: al termine del quale famiglie e ragazzi erano chiamati a decidere se proseguire gli studi o andare a lavorare. In una definitiva, odiosa divaricazione dei destini individuali, determinata dalla provenienza sociale, economica e culturale: gli “sfigati” a lavorare, i nati bene a curare il proprio pedegree, che li avrebbe naturalmente condotti alla laurea. Il tutto condito dall’ipocrisia delle definizioni: si propagandò alla stampa l’innalzamento dell'obbligo, là dove la scelta del “diritto-dovere” alla formazione rappresenta qualcosa di terribilmente differente. Perché obbligo scolastico significa tutti a scuola, senza se e senza ma: qualunque cosa si farà nella vita, cultura ed esercizio critico creano cittadini e lavoratori più autonomi e consapevoli. Al progetto ulteriore previsto dalla Moratti, per fortuna, non abbiamo potuto assistere: le elezioni del 2006 allontanarono l’incubo. Che rischia - una vera e propria minaccia, quella di Berlusconi - di riabbattersi rapidamente sulla nostra scuola. Un motivo di più perché il mondo della scuola non diserti l’appuntamento del 13 e 14 aprile. E confermi la centralità di principi come democrazia e pluralismo che ne hanno da sempre orientato il voto.