LA QUARANTASETTESIMA ORA

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LA QUARANTASETTESIMA ORA

Messaggiodi edscuola » 5 novembre 2012, 8:55

da Meno di Zero
Anno III, Numero 10, Luglio-Settembre 2012

LA QUARANTASETTESIMA ORA.
RAPPORTO AUTOBIOGRAFICO SULLA SCUOLA ITALIANA

di Pietro Li Causi

Il collega strafottente

Prima di tutto vennero a prendere i precari
e fui contento, perché non avevano superato alcun concorso.
Poi vennero a prendere gli insegnanti di francese
e stetti zitto, perché il mercato non aveva bisogno di loro.
Poi vennero a prendere gli insegnanti di latino, e fui sollevato, perché le lingue morte sono inutili.
Poi vennero a prendere gli insegnanti di storia dell’arte,
ed io non dissi niente, perché non insegnavo storia dell’arte.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c'era rimasto nessuno a protestare.

Era il maggio del 2010 quando lessi questa mia transduzione di Brecht nel bel mezzo di un Collegio dei Docenti della mia scuola. Non era un maggio particolarmente odoroso. Anzi, l’aria era a dir poco impura, perché – mentre tutti pensavano alla monnezza napoletana – anche Palermo aveva cominciato a vedere i primi cumuli che la sommergevano. L’idea era quella di costruire, a partire dai versi del poeta tedesco, una prosopopea del collega strafottente. Quello in genere (ma non sempre né solo lui) vicino alla pensione. Quello che ti dice che lui di lotte ne ha fatte negli anni caldi. Quello che dice che ormai lui si è stancato. Che tutto sta andando a scatafascio. Che sono i giovani che si devono ribellare. Che lui no. Lui ha dato. Quello che quando tu proponi di stilare un documento da fare leggere ai docenti e agli alunni che spieghi gli effetti dei tagli sulle vite delle persone, ti dice poi che no, che questa è un’iniziativa privata, e che nella scuola pubblica non va bene. Dopo la lettura, le reazioni dei miei colleghi furono diverse. C’erano i preoccupati – pochi, a dire il vero. Soprattutto c’erano i divertiti – com’è simpatico questo collega giovane! Com’è divertente! – dicevano. Per il resto le reazioni – quelle politiche, quelle vere – furono tiepide e poche. In fondo era un momento in cui – diciamo così – stavano venendo a prendere soltanto i precari. E noi di precari, se ricordo bene, ne avevamo solo uno in quel momento. Eravamo di ruolo, noi. E poi quel precario chi lo conosceva? Era bravo? Al di là del collega strafottente, il mio obiettivo polemico era però anche un altro. Le cifre.

Le cifre, le persone

Erano le cifre che mi impressionavano. Già nell’ottobre del 2010 erano queste le cifre nella sola provincia di Palermo: 38 per cento di posti in meno per i precari, e dunque circa 2124 stipendi in meno. Quelle cifre – era questo che avevo intuito – erano solo numeri e non spaventavano nessuno. Anche noi, nelle lettere che avevamo scritto ai genitori – e che poi non avevamo mandato perché alcuni soloni del Collegio non approvavano un gesto così “privato” - parlavamo nello stile dei nostri politici. Dati, percentuali, cifre. Ma le cifre mica erano persone! E quelle persone – anzi, come si dice oggi, quelle “risorse umane” – alla fin fine, mica eravamo noi!
Fu così che mi venne l’idea della metafora dello sterminio nazista. Cos’altro fare per fare capire ai colleghi che si lambiccavano i cervelli nella scrittura dell’ultimo progettino da presentare al Collegio, per metterli in contatto con l’orrore che provavano i precari che intanto occupavano il provveditorato, facevano lo sciopero della fame, tentavano il suicidio buttandosi giù dai tetti di viale Praga, si davano fuoco? Come fare per riuscire a comunicare che dietro i numeri c’erano sofferenze e vite reali? Molti, con il passare del tempo lo hanno capito. Ma quei molti che soffrivano – quei numeri – alla fine erano sempre “gli altri”. Lontano, lontano si fanno la guerra/ il sangue degli altri si sparge per terra diceva un poeta poco insegnato nelle scuole italiane, pensando alla Prima Guerra del Golfo.

Transduzione brechtiana riveduta e corretta

A distanza di tre anni, avendo avuto la fortuna di non perdere ancora il mio posto, ho potuto rileggere la transduzione brechtiana nel medesimo Collegio dei Docenti. Questa volta però ho aggiornato i dati. E ho fatto la conta.
Nel 2010 era toccato ai primi precari. Adesso invece ci accorgiamo, mano a mano che leggo, che nel Collegio ci sono due docenti di francese in meno. Per effetto della riforma Gelmini il bilinguismo è stato tagliato dalle scuole superiori. L’unica insegnante di francese insegna al momento nelle classi terminali che avevano cominciato la sperimentazione prima della cosiddetta “riforma”. Appena gli alunni di quelle classi si saranno maturati, anche l’ultima e unica collega rimasta perderà il posto. Delle due colleghe di francese che sono saltate una aveva trentotto anni di servizio. Adesso si ritrova ad avere spezzoni di ore in tre scuole diverse di Palermo. E Palermo è grande e viscosa, e i servizi pubblici non funzionano, e spesso ci si ritrova – ancora oggi dopo l’incendio di questa estate della discarica di Bellolampo – a camminare tra i rifiuti per le strade. Quanto alla storia dell’arte, abbiamo già la nostra bella perdente posto, che insegna da noi ad anni alterni. Un anno ritorna, poi diventa di nuovo perdente posto. E salta. Via. In un’altra scuola. E poi c’è la collega di Lettere, perdente posto senza sede. Si dice DOP, ho scoperto. Al momento è da noi in utilizzazione. Fa le ore della vicepreside, anche lei insegnante di lettere. Il giorno in cui la vicepreside dovesse dimettersi dall’incarico, non saprebbe se e dove andrebbe ad insegnare.

La guerra alle porte

Ancora una volta numeri e cifre, dunque. Ma sono, stavolta, numeri che non tornano. Così come non tornano i conti delle classi che sopravvivono ad una nuova forma di moria. Una circolare ministeriale del marzo 2012 impone che il numero minimo di alunni per ogni prima classe di un ciclo sia composto da 27 alunni. Tradotto, significa che le prime possono avere più di 27 alunni, ma che se si arriva in terza o in quinta con un numero inferiore a 27, allora la classe scompare e viene smembrata e accorpata ad altre classi. Una cosa del genere è capitata già nella scuola nostra alla IV B, che non c’è più, e alla II S, che non è mai diventata III S. Fatto un conto approssimativo, sono state – nel solo nostro istituto – almeno altre due o tre cattedre che sono saltate.
Ecco dunque che si arriva ad un “noi” sempre più allargato. La guerra che qualcuno pensava lontana lontana, si è andata sempre più avvicinando. Il ministro Profumo, nell’articolo 3 del Decreto di Stabilità del 2013, ci impone di passare da 18 a 24 ore di insegnamento settimanali. L’insegnante dovrà completare le sue ore abituali con spezzoni di sei ore. Non si capisce bene come questi spezzoni dovranno essere assegnati. Decrittare il testo della legge sarebbe un’impresa anche per un filologo più che perito. Una sola cosa è chiara. Tutto avverrebbe a parità di stipendio. Non si tratta solo dell’ennesimo attacco al salario e al lavoro. Le cifre si ingrossano. Anche se ancora una volta sarebbero i precari i più colpiti, alcuni hanno calcolato che nella sola provincia di Palermo 2000 insegnanti di ruolo potrebbero perdere il posto. La persona che dice “io” nella poesia di Brecht è coinvolta e, forse, sta cominciando a capire che avrebbe dovuto muoversi un po’ prima.

Ci sono contratti e contratti

Ma non ci sono le risorse, ci dicono. Dobbiamo fare sacrifici. Mi chiedo però cosa rimanga di uno stato di diritto quando, per salvare il paese, si cominciano a proporre leggi che vilipendono i contratti nazionali. E poi – mi chiedo – perché alcuni contratti possono essere stracciati e altri no? Solo per fare un esempio, leggo nel bellissimo libro di Giacomo Di Girolamo (Cosa grigia. Una nuova mafia invisibile all’assalto dell’Italia, Il Saggiatore, Milano 2012, p. 52) che «quello che tutti sanno e che nessuno dice è che il Ponte sullo Stretto è un bene se si fa, ma è anche un affare se non si fa. Finora per realizzarlo sono stati spesi, tra espropri, studi di fattibilità e qualche maldestra prima pietra posata, duecentocinquanta milioni di euro. Non solo: se davvero il Ponte non si fa, le ditte che hanno partecipato alle diverse gare d’appalto avrebbero diritto a risarcimenti statali, come penale, per ottocento milioni di euro». E dunque, se proprio il governo deve cominciare a violare i contratti, perché non partire da quelli che ha stipulato con le imprese che stanno “lavorando” per la mancata realizzazione delle grandi opere? Perché partire da noi insegnanti? So che è una retorica trita (e se è trita, forse, qualche motivo ci sarà), ma perché proprio noi insegnanti dovremmo pagare il business degli appalti dati con procedure d’emergenza? Perché dovremmo pagare il debito creato non solo dalla corruzione politica e dalle criminalità organizzate, ma anche dalla speculazione di grandi banche che, anziché essere indagate, arginate e punite in un tribunale internazionale contro i diritti dell’umanità, vengono a chiedere il conto alle nostre logore democrazie?

La quarantasettesima ora

Dopo avere tentato per tre anni di orientare e smuovere il mio Collegio dei Docenti, ho capito che stavo sbagliando tutto. In fondo chi diceva “io” nella poesia, ero anche io! Io che chiedevo agli altri cose che non si sentivano di fare, oppure che avevano fatto davvero, non capivo che anziché chiedere e pressare, dovevo agire. Adesso invece ho capito semplicemente che non me la dovevo prendere con gli altri. La vita dell’insegnante – checché se ne dica – è complicata, e il tempo per lottare spesso viene inghiottito dal tempo che si cerca di strappare alla vita quotidiana per fare il proprio dovere: correggere e predisporre i compiti, preparare le lezioni, partecipare alle riunioni di dipartimento, ai consigli di classe, ai collegi dei docenti. Tutte quelle cose, cioè, che si fanno nei pomeriggi in cui chi non sa nulla della scuola immagina gli insegnanti intenti a sgavazzare o a godersi una vita troppo ben pagata.
E allora, ripartiamo con i numeri. Oltre alle 18 ore frontali, ho contato, nella scorsa settimana, un’ora in più di ricevimento mattutino dei genitori, sei ore per la correzione di 24 compiti di italiano, un’ora di riunione di dipartimento, tre ore di collegio dei docenti, altre diciotto ore di lavoro domestico per la preparazione della didattica in classe. Tirando le somme, nel corso della settimana, ho lavorato per la scuola, in tutto, 47 ore. Anche il sabato e la domenica. Cosa ne sarebbe della mia vita se le ore di lezione frontale diventassero 24?
Visto che al peggio non c’è mai fine, provo almeno – con orrore – a immaginarlo. Occupando spezzoni di ore non miei, innanzitutto – posto che non sia io a perdere il posto – impedirei ad un precario di lavorare. Quindi, le mie classi aumenterebbero. Al momento ho circa 70 alunni in 3 classi e 120 compiti al mese da correggere di italiano e di latino, con tre consigli di classe a cui partecipare (di cui due da presiedere come coordinatore). Con 6 ore in più avrei almeno una classe in più, con altri compiti in più da correggere e altre ore di lezione da preparare con tempi di lavoro domestico sempre più compressi e sacrificati.
Non è poi detto che le mie classi – vista la restrizione dell’organico – si trovino tutte nella stessa scuola o – anche – nello stesso comune o nella stessa città. Ma ci sarebbe anche chi se la passerebbe peggio di me. Il collega di francese delle medie, ad esempio, che si ritroverebbe circa 8 classi con una media di 250 compiti al mese da correggere. O i colleghi di discipline meno conosciute, come ad esempio l’estimo, che si insegnano solo in scuole come l’Istituto agrario. L’ho conosciuto io, una volta, un insegnante di estimo. Una volta varata la riforma Gelmini si è ritrovato, dopo trent’anni di servizio, ad insegnare su tre scuole di due provincie diverse. Quasi ogni pomeriggio della sua vita era impegnato in un consiglio di classe, in una riunione di dipartimento, in un incontro con i genitori, in un collegio dei docenti. Una pacchia per il suo benzinaio! Che ne sarà di lui con le 24 ore? Tenendo conto che gli Istituti agrari sono merce sempre più rara in tutta Italia, si troverà ad insegnare anche in scuole di regioni diverse?

Comunicazioni virali intorno a un no

Ho imparato – dicevo – il rispetto per tutti i miei colleghi, anche per quelli che mi sembravano più tiepidi e distanti. E ho imparato che se si vuole fare qualcosa, bisogna sempre partire da sé. Dobbiamo essere noi stessi gli agenti del cambiamento, diceva un tale che è morto e che adesso fa – inconsapevolmente – il testimonial di una famigerata compagnia telefonica. Tanto più che, a quanto sembra, non è rimasto davvero più nessuno a difenderci. Mi sono dunque guardato in giro e mi sono chiesto cosa potevo fare da solo, quali erano le mie possibilità. E ho avuto l’idea delle petizioni, quelle che sono state pubblicate su firmiamo.it (http://firmiamo.it/lascuolanonpaghilacrisi e http://firmiamo.it/salviamo-la-scuola-dai- nuovi-attacchi), e che invito i lettori a leggere e firmare.
La seconda delle due, in particolare, ha avuto un grande successo. Da lì, la scoperta che alla fine non si è soli, che, canalizzando bene la rabbia, e trasformandola in qualcos’altro – azioni creative, comunicazioni virali – forse si può tentare quanto meno di farsi ascoltare. E poi, se si scopre che il sindacato è consociativo e che il suo responsabile del settore scuola va a braccetto con il ministro, si può stracciare la tessera. E poi ancora, si possono inviare al ministro lettere in cui si racconta la propria vita d’insegnante da 18 ore frontali alla settimana, spiegandogli quanto sia complicata. Si possono inviare, anche, report dettagliati in cui si computano le ore lavorate al di fuori della scuola. Sono piccole azioni. Ma sono meglio del vuoto pneumatico. E non è detto che non servano!
Questo, penso sia il primo obiettivo. O meglio, più che un obiettivo, è un dovere: comunicare un disagio che si vive sulla propria pelle, ma soprattutto dire di “no”. È dura dire di “no”, oggi in Italia. Ci si sente additati. Eccoli lì, i soliti guastatori che si mettono di traverso agli sforzi di chi vuole modernizzare il paese. C’è lo stigma della vergogna per chi dice no. Il punto è però che dire “no” è diventato l’unico modo di reagire di fronte ad una strategia comunicativa e decisionale sempre più patologica.

Il bastone e la proposta

«E voi che proposte fate?» È un altro ritornello consueto. Il punto è che al ritornello si dovrebbe rispondere con una contro-domanda: «ma che proposte può fare una comunità di cittadini che è esclusa a priori da processi decisionali che – diciamolo pure! – la vilipendono?» Come possiamo arrivare a formulare proposte se il modello non lo prevede, se quelle poche iniziative di leggi popolari che vengono tentate finiscono nel cassetto? Come mi può chiedere quali siano le mie proposte chi ha appena finito di dire che mi merito solo “il bastone”? È già tanto che il bastone non lo prenda pure io e che mi sforzi di trasformare il conflitto in una comunicazione nonviolenta!
In passato, anche in questo paese – sembrano secoli fa – si sono varate leggi che sono state il frutto delle consultazioni delle parti e degli attori sociali coinvolti nei processi. Se anche oggi si ritornasse a pratiche di questo tipo, allora sì che le proposte verrebbero fuori, e non ci sarebbe bisogno dei messia di turno che ci devono liberare. Allora forse saremmo tutti più partecipi, più liberi e sicuramente niente affatto vilipesi. Allora, forse, sarebbe possibile costruire processi equi di cambiamento e di miglioramento. In questo caso, tutta la comunità scolastica si trasformerebbe in truppe di consulenti ministeriali. Gratuiti per giunta! Ma fino a quando le minestre (minestre di «bastoni») verranno calate dall’alto, io starò – senza alcuna vergogna – dalla parte di quelli che dicono no. Anche perché, di colleghi che pensano che tutto questo che sta avvenendo sia lontano lontano ce ne sono sempre di meno. E non hanno alcuna voglia di farsi venire a prendere.

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NOTE
La transduzione letteraria prevede, oltre che il passaggio da una lingua ad un’altra, anche l’adattamento e l’attualizzazione del testo al nuovo contesto culturale, sociale e politico di riferimento nel quale è calato il traduttore.
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