Per l’Ocse sull’istruzione si può ancora tagliare

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Per l’Ocse sull’istruzione si può ancora tagliare

Messaggiodi edscuola » 22 agosto 2012, 8:41

da tuttoscuola.com

Per l’Ocse sull’istruzione si può ancora tagliare

Dopo anni di tagli alla scuola, applicati con particolare rigore dagli ultimi governi Prodi e Berlusconi, molti pensano - all’interno del mondo della scuola ma non solo - che il settore dell’istruzione abbia già “dato” abbastanza. E che quindi ora per eventuali ulteriori riduzioni della spesa pubblica, di cui si parla come passo necessario per una contestuale riduzione della sempre più asfissiante pressione fiscale, sia naturale guardare ad altri settori.

Non tutti evidentemente la pensano così.

Piercarlo Padoan, capoeconomista Ocse - l’organismo internazionale i cui studi (a partire dalle analisi comparative del progetto Pisa) hanno una grande influenza sulle politiche dei governi -commentando la smentita del governo italiano sul taglio del'Irpef, ha recentemente affermato: “I margini per tagliare le tasse vanno costruiti e consolidati. La riduzione della pressione fiscale va finanziata con tagli di spesa. I margini di guadagno attraverso la razionalizzazione di voci di spesa pubblica, come la sanità o l'istruzione, sono molto considerevoli, secondo alcune stime il 2% del pil, e soprattutto sono permanenti”. E ha concluso che sulla spending review “c'è ancora molta strada da fare”.

Quindi l’istruzione sarebbe, con la sanità, uno dei settori dai quali secondo l’economista italiano si potrebbero ricavare significativi risparmi. Eppure l’incidenza della spesa per l’istruzione sulla spesa pubblica totale è passata in Italia dal 10,3% del 1990 a meno del 9%, e con gli effetti dei tagli degli ultimi anni scenderà ancora. E in rapporto al Pil si attesta al 4,5%, meno di tutti i paesi con i quali ci compariamo (e in Danimarca si arriva addirittura all’8%). A quali rapporti percentuali pensa il Prof. Padoan? E se è vero (come è vero) che viviamo nella società della conoscenza, come si coniugano queste declinanti percentuali con le possibilità di rilanciare l’indispensabile crescita dell’economia italiana?

Dubitiamo che sia una buona idea ricercare una ulteriore riduzione della spesa per l’istruzione, al fine di finanziare l’alleggerimento della pressione fiscale. E non perché non si possano identificare nuovi risparmi, cosa di per sé doverosa, ma perché essi dovrebbero essere inquadrati in un contesto molto più ampio.
Un paio di considerazioni, a questo riguardo. In primo luogo il modo migliore di ridurre la pressione fiscale su chi le tasse le paga, sarebbe quello di riuscire a farle pagare a chi le evade. L’evasione fiscale in Italia è stimata in almeno 120 miliardi di euro; secondo altre stime è addirittura molto superiore: per la Corte dei Conti, “la dimensione dell'evasione fiscale in Italia è pari al 18% del prodotto interno lordo, che ci pone al secondo posto nella graduatoria internazionale, guidata dalla Grecia”. Rendere più efficace la lotta all’evasione deve essere la priorità dell’azione del governo.

Strumenti non oppressivi per perseguire questo obiettivo ci sarebbero, basti pensare all’introduzione del cosiddetto contrasto di interessi, cioè a meccanismi che consentano la deduzione di spese per acquisti di beni e servizi, che porterebbe tutti a pretendere sempre la ricevuta fiscale; sarebbe di aiuto anche un’efficace azione di comunicazione sociale e di educazione civica nelle scuole, che punti sulle conseguenze dell’evasione fiscale per i cittadini onesti e per la collettività. Inoltre un efficace incrocio di tutti i dati (inclusi quelli bancari) ormai a disposizione delle pubbliche amministrazioni dovrebbe fare il resto per stanare gli evasori, quelli che Monti ha definito “distruttori della società”.

In secondo luogo, se si affronta il tema della riduzione della spesa pubblica, in particolare nel settore dell’istruzione, si può accogliere - con senso di responsabilità - l’idea che ci siano ancora, nonostante i molti tagli del recente passato, delle residue sacche di inefficienza: in un universo così grande, che coinvolge più di un milione di dipendenti e oltre 40 mila punti di erogazione del servizio, in linea teorica si può migliorare l’efficienza quasi per definizione. Un esempio recente è quello del risparmio ottenuto dal Miur con la modernizzazione delle procedure per la maturità. Il punto però è un altro: accanto al doveroso miglioramento dell’efficienza sono indispensabili gli investimenti. Se si vuole migliorare la competitività del paese, puntando anche sul capitale umano e quindi su una maggiore efficacia del sistema di istruzione, è necessario effettuare numerosi investimenti. Ne consegue che i risparmi derivanti dall’efficientamento (come si dice in gergo aziendale) del sistema dovrebbero essere reinvestiti, e a questi si dovrebbero sommare anche altre risorse da investire nella qualità della scuola: in strutture, reti, ricerca didattica, stabilizzazione e aggiornamento del personale. E poi in retribuzioni più dignitose per tutti, oltre a un percorso di carriera con meccanismi di incentivazione del personale che si vuole impegnare di più.

Se inquadrate così, in un’ottica strategica e lungimirante, le ipotesi di ulteriori razionalizzazioni – intese come eliminazione di inefficienze o di spese improduttive – possono avere un senso, e le prospettive di innescare la crescita (forse nel medio termine) e con essa la riduzione delle tasse, appaiono più credibili. Altrimenti danno l’idea dell’ennesimo taglieggiamento di un settore esausto, che richiama tanto l’immagine di chi taglia il ramo dell’albero su cui è seduto.
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