da Unità
E se arrivasse un nuovo ’68?
Affiorano qua e la i primi tentativi di celebrare in qualche modo i quarant’anni del lontano 1968, anno degli studenti e anno di uno scossone libertario. Premessa, anche, alla stagione, più intensa e duratura, degli operai e del mondo del lavoro in generale. C’è nello stesso tempo qualcuno, nei talk show televisivi, che allude, pensando ai nostri giorni, ad un possibile avvento di un nuovo ’68 sociale capace di contrassegnare questo 2008. Un’ipotesi che parte dall’idea che quel sommovimento - soprattutto nel campo del lavoro subordinato - avesse delle caratteristiche tutte spontanee. Ignorando così gli sforzi organizzativi che erano stati alla base della riscossa nelle fabbriche iniziata negli anni ’60. Con alla testa dirigenti del calibro di Bruno Trentin, Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto. Ma anche col contributo decisivo di migliaia di «funzionari» e semplici lavoratori sparsi nei territori, soprattutto nel Nord est. Non fu insomma un «miracolo». Furono messe in campo idee, esperienze, proposte, capaci di trascinare milioni di donne e di uomini. Fino all’autunno caldo del 1969. Non fu solo il tentativo di «interpretare» pedissequamente un clima di protesta e di attesa, non fu la sponsorizzare di una somma di richieste le più diverse. Fu la capacità di scegliere, indirizzare. E di collegare le questioni materiali (il salario) a questioni di libertà e di potere (i diritti, i Consigli). Una visione assai diversa da quella diffusa (ma presente anche in settori del sindacato, Cgil compresa) dai vari gruppi cosiddetti «extraparlamentari». Tutti intenti a far leva solo sulle questioni pur sacrosante della busta paga.
Oggi c’è qualcosa che ricorda quei giorni? Certo il malessere sta crescendo. Non solo attorno alla difficoltà di poter vedere all’orizzonte, dato il permanere dell’attuale legge elettorale, una stabilità governativa. Non solo per il diffondersi di quella che è chiamata antipolitica e che è in realtà una critica alla politica intesa come un affastellarsi di clientelismi, favoritismi, prebende. C’è il crescere di un sentimento di ingiustizia sociale che tocca in particolare non l’intero mondo dei «produttori», proprietari d’impresa compresi, bensì quelli che prestano la propria forza lavoro. E ancora una volta gli aspetti appaiono intrecciati. C’è quello ancora una volta dei salari e c’è quello, tragico, delle morti bianche. E per questo secondo punto, così illuminato dall’eccidio di Torino, è rimbalzato in primo piano il tema delle condizioni di lavoro oggi, del venir meno di una presa, di una presenza, di un potere, di un controllo dei lavoratori in prima persona attraverso i loro rappresentanti sindacali.
Certo fa impressione attorno alle tematiche salariali il coro dei consensi. Come se tutti, dal centrodestra al centrosinistra, dal manovale al manager ben remunerato, fossero d’accordo. Se però si scava nelle diverse opinioni ci si accorge che sono in campo concezioni non simili. C’è chi pensa - vedi l’esempio di Diego Della Valle - a elargizioni una tantum da far calare nella propria azienda, estromettendo ogni contrattazione sindacale. C’è chi pensa a salari solo collegati alla cosiddetta produttività come se la produttività nascesse solo dalla fatica e non anche dalla innovazione e da elementi esterni alla stessa azienda. E come se l’opposizione ad allargare al massimo l’area della contrattazione di secondo livello (tra parentesi: grande conquista dell’autunno caldo) provenisse dai sindacati e non, nei fatti, dagli imprenditori, soprattutto nelle aziende minori.
C’è poi chi cerca di fare un discorso più complesso e sono i sindacati. Che hanno ben compreso come l’attacco alle buste paga (e alle pensioni) non provenga solo da imprenditori che non rinnovano i contratti ma anche dai prezzi che lievitano senza ragioni oggettive e da tariffe non equilibrate dai governi in carica. Nonché da un fisco esoso proprio nei confronti di chi non può evadere neanche di un centesimo. Sono stati dunque preveggenti Cgil Cisl e Uil quando di fronte al governo Prodi hanno avanzato una piattaforma organica su tutti questi punti. Erano già pronti i tavoli di una concertazione risolutiva. Sono stati fatti saltare. Certo sarebbe bello rimetterli in piedi subito, senza aspettare l’esito elettorale, come ha suggerito Walter Veltroni (nonché il sottosegretario Alfiero Grandi). Temiamo però che la scelta di destinare il cosiddetto «extragettito» al lavoro dipendente risulti un’operazione assai difficile. Ma intanto, almeno, sarebbe bene che le diverse forze, anche nel centrosinistra, i diversi candidati, alcuni di gran nome proprio nel campo degli studi sociali, dicessero un parere su quella piattaforma. La facessero propria. Dicessero da che parte stanno. Sapendo che sul salario (e sui diritti) le opzioni non sono tutte eguali.