da Repubblica.it
Ma sì, chiamatele bulle
Sul vocabolario non esistono, ma nelle scuole sì. A differenza
dei maschi, però, feriscono con parole e sguardi
di ANDREA DE BENEDETTI
Ci sono parole che nascono col pregiudizio incorporato. Che pretendono di descrivere la realtà escludendone un'ampia fetta già in partenza. Bullo, ad esempio. Un termine che evoca mondi e comportamenti prettamente maschili - il branco, l'esercizio del potere, la sopraffazione, la violenza fisica - e che in italiano non contempla neppure il genere femminile. Provate a digitare bulla sul vostro programma di videoscrittura e verrà marchiata all'istante dall'infamia ortografica di una sottolineatura rossa. Il vocabolario non la registra, dunque ufficialmente non esiste.
Ma i vocabolari sono macchine lente. Così lente che mentre i lessicografi organizzano ponderose riunioni per decidere se concedere o meno il permesso di soggiorno a una determinata voce, il concetto è già ampiamente penetrato nell'uso e ha messo su casa nella coscienza linguistica delle persone.
Succede così che, mentre la parola bulla aspetta ancora di uscire dalla clandestinità ed essere regolarizzata, le bulle sono già da tempo diventate una piaga sociale non meno preoccupante di quanto lo siano i bulli maschi.
Basterebbe l'esperienza a dimostrarlo, ma per ogni evenienza lo confermano anche le statistiche. L'ultima, realizzata dalla Società Italiana di Pediatria su un campione di 1.200 studenti delle scuole medie, racconta che il 64% degli intervistati non ritiene il bullismo una prerogativa esclusivamente maschile, bensì un flagello unisex.
È, quello femminile, un bullismo sottile, subdolo, intellettualizzato. È un bullismo che non ha bisogno dell'abuso fisico per essere spietato, che non finisce su YouTube o sui telegiornali, che non provoca provvedimenti ministeriali né sanzioni disciplinari da parte delle scuole. È un bullismo che c'è ma non si vede, di cui si sa ma non si parla, che lascia intatto il corpo ma intossica l'animo.
Rimangono, rispetto alla versione maschile, alcune costanti universali legate ai ruoli (una vittima e uno o più carnefici), all'età (soprattutto adolescenti e preadolescenti) e al contesto (in genere la scuola). Cambiano però armi, campo di battaglia e strategie.
La prima cosa a ferire, quando una donna o una ragazzetta decidono di fare del male, è la parola. Che non ha neppure bisogno di essere pronunciata per offendere e per umiliare. Basta nasconderla in un sussurro, in un pettegolezzo, in un foglietto ripiegato, in un mezzo sorriso: immaginarla, per la vittima, può essere più doloroso che ascoltarla o leggerla. Denunciarla, invece, sarebbe semplicemente impossibile.
Poi c'è lo sguardo. Una rasoiata insolente che fende il cuore di chi la riceve come un colpo d'accetta. Chi non è in grado di reggerlo, chi abbassa le palpebre, chi si volta dall'altra parte come quando viene colpito da un raggio di sole improvviso e abbagliante, ha già perduto un pezzo della guerra. Sui manuali di self help si dice di non cedere, di non far finta di niente, di provare a restituirlo, ma chiunque sia stato almeno una volta in minoranza all'interno di un gruppo sa quanto sia difficile affrontare un muro di occhi ostili senza sentirsi annodare la gola.
Infine c'è il sorriso. Che però non è mai un sorriso, ma una maschera. Guai a lasciarsi ammaliare da quel travestimento, a confonderlo con un'offerta di armistizio e a ricambiarlo con un altro sorriso, magari un po' troppo docile e accogliente: la bulla in questione ti risponderà deformando la fila composta e cordiale di denti in un ghigno o una risata sguaiata, e a quel punto sarà la disfatta.
La vittima della bulla, in genere, è anche lei una ragazzina; una ragazzina che, da buona vittima, subisce, e più subisce più rimane inchiodata al suo ruolo, incapace di reagire, di ribellarsi, anche solo di raccontare. Tanto, anche se lo facesse, non potrebbe dimostrare nulla, ribattere nulla, risolvere nulla. Avventurarsi a chiedere spiegazioni significherebbe esporsi all'ulteriore schiaffo di una beffarda smentita, magari avvelenata dalla contraccusa di narcisismo per aver anche solo immaginato - inguaribile sfigata - che altri potessero perdere tempo a parlare di lei.
Nell'imbuto di frustrazione e isolamento in cui precipita, spesso la vittima riesce persino a sentirsi in colpa, scivolando ancor più sulla china dell'amor proprio e abbandonandosi a un destino che è quello di tutto il genere femminile. Perché le donne si saranno anche emancipate, saranno anche riuscite a emergere sul lavoro e nella vita sociale, avranno anche liberato quella carica aggressiva rimasta impigliata per millenni nella ragnatela delle convenzioni sociali, ma sovente continuano a portarsi appresso, mischiato al codice genetico, l'atavico gravame culturale di non sentirsi all'altezza.
Spesso non c'è un motivo preciso per cui la vittima diventa una vittima. L'insicurezza, certo. Ma anche l'improvviso e casuale innescarsi di una dinamica perversa all'interno del gruppo, dentro il quale si formano grumi di socialità che spesso sono fondati su un'emarginazione, sulla confortevole percezione di appartenere a qualcosa a cui gli altri non hanno accesso. È la logica del branco, ed è una logica che funziona solo se c'è qualcuno che, per una scelta del tutto arbitraria, non ne fa parte.
Di questi branchi, le ragazze non sono soltanto silenziose complici, ma spesso si convertono in leader a tutti gli effetti, trascinando con sé personalità più deboli, che magari hanno alle spalle un passato di vittime e a un certo punto trovano un ruolo e una legittimazione sociale nella sottomissione al capo.
Rispetto al paradigma di Dan Olweus (il primo a formalizzare negli anni Settanta caratteri e dinamiche del bullismo) e, soprattutto, rispetto alla lettura "patologica" che ne fanno sistematicamente politica e istituzioni, gli studi sul fenomeno al femminile rivelano una realtà più complessa, in cui convergono fattori sociali, etologici e di genere.
Da questo punto di vista, la bulla non è soltanto la scoria umana e sociale prodotta da una famiglia troppo permissiva o troppo difficile, ma è anche, e soprattutto, un indizio. Un indizio del fatto che le donne - tutte le donne, non solo le ragazzine - una volta completato il recupero della loro fase istintuale, possono scoprire un giorno di essere cattive, di voler fare del male, persino di saper uccidere.
È, in fondo, l'esito ineluttabile di ogni processo di conoscenza, al termine del quale, da Edipo in avanti, si trova sempre il pozzo profondo dell'essere. Quella ragazzina che umilia, calunnia e annichilisce la compagna di banco non lo ha ancora scoperto. Ma presto ci arriverà anche lei.