Se chiedete al professore di un'università americana...

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Se chiedete al professore di un'università americana...

Messaggiodi edscuola » 15 novembre 2007, 8:07

da Il Corriere della Sera
15 novembre 2007

Se chiedete al professore di un'università americana...

Se chiedete al professore di un'università americana quali siano i giorni più avvincenti del suo anno accademico non avrà dubbi: le prime settimane di settembre. Sono i giorni in cui nei dipartimenti arrivano i nuovi professori: giovani assunti sul mercato accademico, ma anche professori più anziani «rubati» a qualche altra università. Portano idee, progetti per nuovi corsi.
Le discussioni nei corridoi si accendono: è una frustata di freschezza per tutti.
Jimmy Cayne, il capo di Bear Stearns, una grande banca di New York, spiega così il suo lavoro: «Il compito più difficile è convincere i nostri giovani brillanti a non lasciarci, e spiegare ad altrettanti candidati perché dovrebbero accettare la nostra offerta di lavoro. Per noi il talento è la risorsa più preziosa e più rara: è difficile attrarlo e ancor più difficile trattenerlo. Se ho successo in questo compito mi sono ripagato lo stipendio».
Un giorno chiesi a Wim Bishoff, l’ex capo di Schroders, un’antica banca inglese, quale regola seguisse per assumere i giovani: «Prima scorro l’elenco dei laureati in lettere classiche, poi in matematica e fisica: se proprio non trovo nessuno disposto a lavorare con noi, assumo un giovane uscito dalla London School of Economics». Sorprendente? «No, una volta assunti li invito a colazione ed espongo loro i problemi della banca. I laureati in lettere classiche, i matematici e i fisici per lo più dimostrano di non capire di che cosa si stia parlando; ma ogni tanto il loro modo di vedere le cose è talmente inusuale che improvvisamente capisco come risolvere un problema che fino a quel momento ci pareva senza vie d’uscita. Quanto ai laureati della London School, mi ripetono ciò che ho letto al mattino sul Financial Times: raramente imparo qualcosa. (In Italia, sessant’anni fa, lo aveva già capito Raffaele Mattioli).
Che cosa c’è di comune in questi esempi? La curiosità. Le società aperte sono innanzitutto società curiose, Paesi in cui la curiosità verso il mondo e la meraviglia verso la vita sono tratti comuni, anche di chi ha raggiunto il potere o posizioni prestigiose. Sbaglia chi pensa che il rinnovo della classe dirigente sia innanzitutto e solo un problema di età (un’opinione condivisa dall’analisi che la Fondazione Giovanni Agnelli presenterà sabato al seminario dell’Aspen Institute dal titolo: «Il merito non l’età è il fattore discriminante»). Certo, l’età conta, ma ancor più conta la curiosità. A ottant’anni compiuti il premio Nobel Franco Modigliani trascorreva ore con i nuovi colleghi per cercare di capire la loro ricerca, che spesso usava tecniche matematiche a lui incomprensibili. Non desisteva mai: «Se il risultato è giusto devo essere in grado di capirlo». E con il medesimo desiderio di conoscere interrogava i loro figli, curioso di come evolvesse l’insegnamento della matematica o della storia nelle scuole elementari.
Sono esempi purtroppo rari. Gli uomini, invecchiando, solitamente pensano di aver raggiunto la saggezza e smettono di ascoltare. Il guaio è che, così facendo, spengono la mente dei giovani, i quali, anziché imparare a pensare con la loro testa, imparano a conformarsi alle idee dei loro superiori anziani, perché questo è il modo facile per far carriera.
Romano Prodi ha riempito Palazzo Chigi di suoi fedelissimi. Persino il suo collega bolognese, il professor Paolo Onofri, colui che nel 1996 aveva ideato un’intelligente riforma del welfare, questa volta è stato lasciato a casa. Ha il torto di pensare con la propria testa. E allora non c’è da stupirsi se la presidenza del Consiglio si sente un «fortino assediato». Dagli assedi ci si libera con un’idea che sorprende il nemico: difficile scovarla se si passa il tempo a convincere il capo di quanto egli sia bravo.
Senza curiosità non può esservi merito. Perché il talento, come dice Jimmy Cayne, va scovato. Ciò che ha spento la nostra università è la scomparsa della curiosità per la ricerca scientifica: ne è la prova un sistema retributivo basato esclusivamente sull’anzianità. Brevettare una scoperta, pubblicare su una prestigiosa rivista internazionale è ininfluente: lo stipendio procede solo con gli anni, indipendentemente dalla qualità della ricerca e anche dell’insegnamento. Per permettersi di accedere all’università occorre essere ricchi, perché gli stipendi dei giovani sono miserrimi, ma a 60 anni i nostri professori sono pagati più o meno come i loro colleghi inglesi.
E’ un vizio non solo dell’università. I dati sulle retribuzioni nell’industria, citati due settimane fa dal Governatore Draghi, mostrano che, in media, tra stipendi italiani ed europei c’è una differenza di circa il 30%. Ma non equamente distribuita: la differenza è molto maggiore per i giovani, si annulla a 55 anni. E allora non c’è da sorprendersi se alla domanda: «Preferisci un lavoro sicuro, anche se meno redditizio, oppure uno meno sicuro ma con migliori prospettive di reddito»? sei giovani su dieci rispondono (l’indagine è di Renato Mannheimer) di preferire quello sicuro anche se mal pagato. «Supponiamo che un’azienda attraversi un periodo florido e decida di aumentare gli stipendi: preferiresti aumenti uguali per tutti, riservati a quelli che più ne hanno bisogno o a chi ha lavorato meglio»?: 4,4 su 10 rispondono o a tutti in egual misura o a chi ne ha più bisogno. Ma non è colpa dei giovani se dimostrano così poca audacia e così tanta avversione al rischio. Hanno semplicemente capito di vivere in una società basata sull’anzianità anziché sul merito. Se si premia solo l’anzianità, allora è comprensibile che i giovani preferiscano aumenti uguali per tutti: così almeno qualche giovane meritevole verrà premiato.
Telecom è una delle maggiori aziende italiane. Gli azionisti stanno cercando un nuovo capo azienda. Ci aspetteremmo che incaricassero una società di «cacciatori di teste» di scovare l’amministratore delegato più bravo disponibile sul mercato, poco importa se italiano. Invece le banche azioniste vogliono decidere loro, preoccupate che arrivi un capo azienda che magari decida di affidare i conti e la finanza di Telecom ad un’efficiente banca inglese. Altro che merito!
Segnali più incoraggianti provengono dalle imprese medie e piccole. Un’indagine della Banca d’Italia segnala un rilevante ricambio generazionale: nelle imprese industriali con oltre 50 addetti i capi azienda nel 2006 erano più giovani e con un livello di istruzione superiore a quanto si osservava nel 2002: la quota di capi azienda con oltre 65 anni è diminuita dal 37 al 24 per cento; la quota di quelli di età compresa tra 36 e 55 anni è aumentata dal 29 al 44 per cento; la quota dei laureati è salita dal 23 al 38 per cento. Il ricambio generazionale è spesso collegato ad un mutamento nelle strategie aziendali e la performance dell’impresa è inversamente correlata con l’età del capo azienda.
La curiosità nasce nella scuola perché se una mente a diciott’anni si spegne è difficile che poi si riaccenda. Ma rifondare la scuola non significa programmi ministeriali, tabelle, contratti, le cose di cui i governi si occupano e che non ne hanno evitato il degrado. E’ giunto il momento di una riflessione più profonda che parta dalla consapevolezza che è la scuola la chiave di volta del nostro futuro.
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