da LASTAMPA.it
La scuola irrecuperabile
PAOLA MASTROCOLA
Apprendiamo che le scuole non hanno i soldi per pagare i corsi di recupero. Oh, finalmente ci siamo arrivati! Da un anno aspetto che la bomba scoppi e che emerga l’ipocrisia demagogica che soggiace all’idea di recupero scolastico: era ovvio fin da subito, fin dal decreto Fioroni, che non ci sarebbero stati i soldi per istituire di pomeriggio corsi per sostenere i ragazzi in difficoltà. Non amo gli struzzi che nascondono la testa nella sabbia, quindi avrei preferito una maggiore chiarezza un anno fa. Comunque, meglio tardi che mai: oggi ne prendiamo atto (per fortuna la realtà ha sempre una sua adamantina inoppugnabile evidenza che prima o poi s’impone).
Ma sono le odierne reazioni a sconcertarmi. Reazione dei media: alle famiglie non resterà che ricorrere alle lezioni private. Con conseguente prevedibile, e anche in parte giustificata, lamentatio populista: orrore! E i meno abbienti? Sarebbe questa una scuola democratica? Si possono penalizzare così gli sfortunati per censo? Come se davvero non ci fosse altra soluzione. Come se l’infame lezione privata fosse l’unica, ingiusta e sperequativa chance cui una società cinica e bara costringe i derelitti. Che strano! Mi dico: nella stragrande maggioranza dei casi lo studente non ce la fa - nonostante la modestia dell’impegno richiesto dalla scuola oggi - solo perché non studia (almeno nei licei questa mi pare la situazione); quindi si aprirebbe a noi ben altra e più nobile chance, quella di rivolgere finalmente un rimprovero ai nostri adorati e viziati pargoli insufficienti in quattro materie al primo quadrimestre, e dir loro di darsi una mossa e mettersi a studiare, di aprirli una buona volta quei loro maledetti libri e starci sopra sei ore al giorno minimo, per esempio, invece che smanettare su computer, playstation, tivù, iPhone, iPod e altre diavolerie.
La seconda reazione che molto mi sconcerta arriva addirittura dall’ex Provveditorato (di Milano, per l’esattezza): benissimo - dicono gli alti dirigenti - siccome non ci sono soldi, consigliamo agli insegnanti di interrompere le lezioni al fine di poter svolgere i tanto agognati corsi di recupero.
E qui vorrei prendermi un momento per spiegare meglio la faccenda. L’idea sarebbe che io, insegnante, interrompa i normali programmi che svolgo al mattino per tornare indietro a rispiegare, sempre al mattino, gli argomenti svolti da settembre a oggi. E perché farei questo? Per recuperare quei 5 o 6 o 10 allievi per classe che si son presi 4 di italiano in pagella. In concreto io domani, invece di iniziare la poesia del Novecento, dovrei tornare a spiegare la differenza tra avverbio e congiunzione. Senza contare che le ore eventualmente pagabili per il recupero (15!) sono comunque così esigue che nessun allievo (vista la mole delle sue carenze pregresse!) potrebbe mai essere veramente recuperato.
Vorrei dire tutto il mio sconforto di insegnante, nel ricominciare da zero. Mio, e di qualche altro sperduto collega, spero. È come se la scuola stesse diventando un enorme gioco dell’oca dove siamo sempre rispediti tutti, da un perfido maleficio dei dadi, alla casella di partenza. Proviamo sconforto perché abbiamo lavorato bene, abbiamo fatto lezione fin dal primo giorno di scuola, abbiamo spiegato e rispiegato, abbiamo dato e corretto esercizi in classe e a casa. Se i nostri allievi dopo quattro mesi di scuola continuano a prendere 4, noi vorremmo dire che ci dispiace moltissimo ma il nostro lavoro l’abbiamo fatto, non possiamo - e non dobbiamo! - ripeterlo all’infinito (possiamo anche noi invocare una sorta di deontologia professionale?).
Dice un proverbio inglese: puoi condurre il cavallo al fiume, ma non puoi costringerlo ad abbeverarsi. A quei nostri allievi vorremmo dire che non si perdano d’animo, che aprano i libri e la smettano di pensare che tocca agli insegnanti (privati o statali che siano) recuperare i loro abissi d’ignoranza, così come tocca ai genitori pagare le lezioni in più. Non è così: qualche cosa, anzi molto, tocca anche a loro, agli studenti, perché ognuno nella vita è responsabile in prima persona di quel che fa o non fa. Alla società, allo Stato, tocca fare in modo che tutti i ragazzi possano con le stesse opportunità avere quei libri da aprire: ma il gesto di aprirli nessuno può compierlo al posto loro, nemmeno se oggi invece che neve piovessero miliardi.
Noi insegnanti non abbiamo Proci che premono per sposarci e quindi non dobbiamo, come Penelope, ogni notte disfare la tela. E nemmeno siamo delle macchine spalatrici pagate dal Comune per andare sempre avanti e indietro percorrendo lo stesso corso. Noi non dobbiamo spalare neve o fingere di tessere tele, noi dobbiamo insegnare! E vorremmo andare avanti. Perché a noi piacerebbe molto finire i programmi! Finire i Promessi sposi, le derivate, la seconda guerra mondiale e l’Eneide, perché ci pare brutto fermarci a metà e non sapere mai che cosa dice il povero Turno a Enea che lo sta uccidendo. Ci dispiacerebbe non finire tutto quel che abbiamo programmato, non solo perché ci piace moltissimo Virgilio, e ci piace moltissimo passare le sue opere ai nostri allievi; non solo perché insomma questo è il nostro mestiere, ma anche perché siamo convinti che i nostri ragazzi debbano, alla fine di ogni anno, sapere le cose che avevamo programmato e non solo la metà o un terzo di quelle cose: abbiamo una classe di venticinque o trenta persone davanti, a cui dobbiamo ben qualcosa! Cioè lo svolgimento pieno e più ricco possibile del programma, affinché siano poi persone preparate ad affrontare esami all’università, concorsi per trovare lavoro, nonché i famigerati test Pisa Ocse, a riguardo dei quali è inutile continuare a chiederci perché siamo sempre agli ultimi posti, dal momento che è evidente la ragione per cui lo siamo, visto che continuiamo per svariati motivi ad accorciare sempre più i programmi...
Per queste ragioni, se mai mi si chiedesse di sospendere le lezioni per fare il recupero, io non lo farò. Non sospenderò le lezioni perché non mi piace per niente una scuola che va tre passi avanti e due indietro. Ma soprattutto perché nutro un profondo rispetto verso tutti quei nostri allievi - dieci o venti che siano per classe - che hanno finora lavorato bene, che i libri li hanno aperti e che ogni giorno vengono a scuola per imparare qualcosa, convinti che tutto sommato ne valga ancora la pena.