Il fallimento dei professori

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Il fallimento dei professori

Messaggiodi edscuola » 25 giugno 2008, 7:11

da Repubblica

Il fallimento dei professori
ADRIANO PROSPERI

In quest´anno si celebra il 40° anniversario del ´68; forse per questo i bocciati all´esame di maturità sono stati i professori. E non solo perché un´anonima figura di docente di nomina ministeriale ha pensato che il sorriso di una famosa poesia di Montale fosse di necessità femminile. Li condanna l´opinione diffusa e l´aura di disastro che circonda il mondo della scuola e dell´università, simile in questo all´Alitalia ma senza nemmeno le ali. Non è piacevole parlarne per chi vi ha trascorso una vita. Ma bisognerà farlo. C´è un nuovo governo e c´è una novità anche nell´assetto ministeriale: il ritorno di scuola e università sotto il governo di un unico ministero.
Prendiamolo per un indizio positivo, anche se nasce in realtà da scarso interesse per tutta quella zona della vita sociale. Abbiamo alle spalle decenni di un processo di segmentazione che ha portato a pensare per compartimenti stagni ciò che ai suoi inizi l´Italia repubblicana concepì come un insieme unitario: non una gabbia, ma un luogo dove i passaggi di docenti dalla scuola all´università e viceversa non erano affatto eccezionali. Le suddivisioni e le paratie stagne via via impiantate hanno portato a spezzare quel corpo in tanti mondi separati o mal comunicanti: scuole superiori e università, triennio per la prima laurea e biennio per la seconda, divisione fra chi si prepara all´insegnamento e chi si presenta ai concorsi per il dottorato di ricerca; divisione nell´insegnamento tra lezioni «frontali» e seminari specialistici, divisioni e clientelismi nella distribuzione delle risorse finanziarie e nei favori per qualche neo-ateneo o altra formazione accademica. E così via, in una discesa ininterrotta verso il peggio.
Il risultato è noto. Non staremo a ripercorrerne i dettagli. Ci sono formule che lo riassumono: tre più due uguale zero, come titolava anni addietro un libro di Garzanti. Il grande disastro si riassume in un dettaglio: dopo anni di università un dottore su cinque ha serie difficoltà ad usare la parola scritta. Così risulta dall´inchiesta pubblicata su Repubblica il 6 febbraio scorso. Il fallimento è clamoroso. E la prima zona dove se ne pagano i costi è la scuola. Ma, come si è detto da molte parti e come non si stanca di ripetere il presidente della Banca d´Italia, è l´intero sistema paese che traduce la regressione culturale e la cattiva qualità degli studi in arretramento economico e civile.
Cambiare si può, si deve cambiare. E la ricetta è semplice. La conosciamo da secoli, la nostra Costituzione l´ha sancita. Bisogna che i capaci e meritevoli siano premiati e che si riapra per loro la strada dell´insegnamento e della ricerca. Bisogna che tutta la scuola sia investita dal vento della competizione intellettuale, dalla lotta per cacciare la cattiva moneta che sta facendo uscire il nostro paese dai livelli alti dei circuiti internazionali e che spinge nello stesso tempo all´emigrazione i nostri giovani migliori. Ma come? Parlando della scuola media Francesco Giavazzi ha proposto sul Corriere della Sera «l´abbandono del sistema dei concorsi pubblici». La scelta dei docenti dovrebbe essere affidata ai presidi perché sarebbero loro a pagare le conseguenze di eventuali errori. Con tutta la stima per l´autore, bisogna dire che si resta sbalorditi. È una proposta di cui comprendiamo tutta l´impazienza ma che è difficile condividere. Proviamo a trasferire l´idea all´ambito universitario: qui già oggi i presidi e i rettori contribuiscono fortemente a determinare i meccanismi di scelta attraverso i concorsi. Ma non pagano nessuna penale se la baracca continua a marciare malissimo. Il corpo universitario che li elegge e li sostiene li spinge a battere sistematicamente la via del protezionismo localistico.
Ricordo anni lontani in cui uno di loro a difesa del suo ateneo sostenne che esisteva di diritto una «quota cattedre» per il Mezzogiorno, da attribuire ai locali concorrenti. Un incoraggiamento indiretto all´abbassamento della qualità viene oggi dall´erogazione dei finanziamenti statali affidati alla cosiddetta autonomia universitaria: quei finanziamenti premiano la quantità dei laureati seguendo la stessa logica dei programmi sovietici che non si ponevano il problema del mercato. La leva finanziaria usata in questo modo deprime la qualità. Quanto questo modello sia rischioso dovrebbe ricordarcelo quello che accade nelle cliniche e negli ospedali, che monetizzano in modo potenzialmente criminale le loro prestazioni.
Ai concorsi si deve pensare cercando di riportarli alla loro funzione storica. È dal ´700 che si è aperto il doppio binario inglese e francese su cui corre quell´idea di libertà che ha spazzato via il sistema vincolistico e corporativo precedente: da un lato, la competizione delle libere forze economiche, dall´altro la traduzione della stessa idea in un sistema di burocrazia statale aperto agli ingegni migliori, quale che sia la loro origine sociale. Nella scuola di stato italiana, di origine napoleonica, è questa la versione della libera gara che abbiamo accolto e su cui si è retta la struttura della docenza. Ma la forza delle corporazioni non si cancella mai del tutto. Tende a riaffiorare, altera le regole e i meccanismi istituzionali. I concorsi per l´immissione degli insegnanti nei ruoli della scuola hanno dovuto fare i conti con la forza di organizzazioni di settore sostenute da potenti sindacati e con la spinta di un precariato cresciuto ai margini e nelle falle del regime dei concorsi. Per quanto riguarda l´università, qui da molti anni la selezione e l´avanzamento nei ruoli affidati di diritto ai docenti hanno battuto la strada segnata dal cosiddetto «ius loci»: un diritto non dissimile per natura da quello del controllo che mafie e camorre impongono sui traffici commerciali, sulle iniziative economiche, sui flussi di ricchezza. Al di là della privata moralità dei singoli, questo sistema è micidiale perché inaridisce fino a ucciderla la linfa della competizione, punisce i migliori se vengono da fuori e premia i mediocri se nascono in casa e garantiscono clientela tradizionale e ossequio servile al «maestro» del posto.
In questo anniversario del ‘68 l´università dei baroni è un lontano ricordo che non suscita rimpianti. Ma proprio in questi mesi sono stati riavviati alla chetichella e alla spicciolata i concorsi, dopo il lungo blocco destinato ufficialmente a preparare una riforma che non c´è stata. Riprendono su base locale: e questo fa ripartire laboriose trattative sommerse e percorsi labirintici per far sì che quel preciso candidato e non altri abbia nella sua sede il posto preparato per lui. Descrivere i passaggi del gioco, l´immensa burocrazia che vi è investita, i faticosi sistemi elettorali elaborati ad hoc, servirebbe solo a mostrare quale montagna è stata eretta per farne uscire il ridicolo topolino del proverbio antico. Verrebbe voglia di raccontare invece per contrasto come si svolge la scelta di un docente in una qualsiasi università inglese e come spesso ne escano eletti i candidati italiani che la nostra università ha rifiutato.
Naturalmente ci sono eccezioni che confermano però la regola. E la regola consiste nel garantire quel diritto del docente locale di sistemare solo e sempre la merce del posto che uccide il confronto intellettuale. Parliamo pure di mafia e camorra, perché la regola base è analoga: tutelare il potere locale né più né meno di quel che fanno e chiedono le varie mafie malavitose che hanno avvelenato il suolo di Napoli e la vita italiana.
Questo il sistema. Lascerà il nuovo ministro che le cose vadano avanti così? Staremo a vedere. Non ci vorrebbe molto a rompere i ceppi che imprigionano le potenzialità della scuola e dell´università nel nostro paese. Non sarebbe necessaria nemmeno una riforma ponderosa e faticosa, che si arenerebbe subito nei litigi e nelle astuzie del gattopardismo italico. Basterebbe far valere il carattere nazionale del concorso affermato dalla riforma Moratti (mai attuata) e lasciare alle commissioni giudicatrici il compito di immettere periodicamente un numero determinato di idonei alla docenza che sia almeno il doppio di quello dei posti di cui le singole sedi chiedono la copertura.
Ma sappiamo bene che questa che leggete è una esercitazione accademica nel senso tradizionale del termine: un sogno innocuo sganciato dalla realtà. Quella realtà il documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef) sembra averla fissata in termini assai lontani dalle speranze e dalle attese di una riqualificazione della scuola e dell´Università: si parla di blocco del turn-over e di una scuola che perderà 130 mila unità tra insegnanti e personale amministrativo (così Roberto Petrini su Repubblica del 21 giugno). Che dire? Auguri ai giovani migliori che dovranno guardare ad altri paesi e battere la via dell´emigrazione, come del resto fecero un tempo molti fra i loro nonni.
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