da Il Giornale
«È finita l’era del buonismo: non possiamo formare asini»
di Eleonora Barbieri
Tutti invidiavano i nostri vecchi maestri delle elementari. «Artigiani della cultura e dell’educazione» li chiama Salvatore Niffoi, scrittore barbaricino ed ex insegnante delle medie. «Loro non erano temuti: erano rispettati». Di questo - dice - ha bisogno oggi la scuola.
Qual è la strada per ritrovare l’autorità?
«La pedagogia dell’esempio: dare, non prendere. Il prof non dev’essere temuto, ma rispettato. Un’autorità gramsciana: fatta non di parole ma di sguardi, gesti. E, quando ci vuole, il bastone».
Che cos’è il rispetto?
«Sono regole ma, anche, buon senso e affetto. Il timore è soltanto forza. Il rispetto è quello su cui costruisci il feeling con gli alunni, per accompagnarli nel duro mestiere di vivere. Far conoscere il piacere della poesia, dell’arte, della tecnica. L’insegnamento è una vocazione, non un lavoro».
Qualche insegnante non esagera col feeling?
«Quello è populismo. Non si è mai amici degli alunni o dei figli. I ragazzi hanno già gli amici: hanno bisogno di guide, persone con esperienza. Qualcuno che si affacci nel loro mondo con passo leggero».
Servono punti fermi?
«Certo. I vecchi maestri erano grandi artigiani. C’erano quelli del legno, del ferro, della sartoria. Loro erano artigiani dell’educazione, della cultura, del raccontare: zattere per i giovani in questo mondo seminato di cocci di vetro. Ma ci vuole altruismo: farti rispettare, dando tutto quello che hai».
Con i ragazzi non ci vuole anche più severità?
«Senza sacrificio non arrivi da nessuna parte. Devono dimenticare l’abitudine ad essere assistiti e cominciare ad assistere: non guardare, ma costruire. Sudare e pedalare».
Basta concessioni?
«Sono sempre stato un insegnante all’antica. Portavo i ragazzi in campagna a conoscere e assaggiare le erbe, ma la grammatica è grammatica: ci si fa in quattro per capirla, e l’analisi logica devi studiarla. Per i compiti i ragazzi erano impegnati 3-6 ore tutti i pomeriggi».
Quindi se c’è da bocciare...
«Si boccia. Non farlo è demagogia. Il prof è come il medico: se sei cieco non può dirti che ci vedi benissimo, altrimenti cadi nella prima buca che incontri».
Gli esami a settembre sono utili?
«Certo, non possiamo formare degli asini. Se non sai, ti rimando: come alla patente».
Servono più regole?
«Poche, ma indispensabili. E vanno più sentite e interiorizzate che scritte: l’autorità è l’esempio. È sporcarti le mani, soprattutto con le pecore nere. Perché le belle classi piacciono a tutti, ma l’insegnante vero si misura con chi ha difficoltà. E non ha bisogno di corsi sul bullismo, che sono solo uno spreco di denaro pubblico».
La tendenza è un’altra...
«Il buonismo è praticato da chi non sa insegnare: è il lasciar fare egoistico, anche in famiglia. È la resa al degrado. A mio padre bastava uno sguardo. Quando sono andato a Roma a studiare è entrato nella mia camera, al mattino, e mi ha detto: “Nun ti naro nudda. Non ti dico niente”. Il prof che ha bisogno di un codice è già fregato: il codice sei tu».
I suoi ex colleghi hanno delle responsabilità?
«Anche loro hanno dato una mano allo sfascio della scuola. Alcuni pensano di essere dei sudditi del ministero. Ma l’insegnante non finisce di lavorare all’una e mezza, è una guardia medica dell’intelletto: aperta 24 ore su 24. Altrimenti si fa mettere i piedi in testa».
Come mai oggi l’Italia vuol fare un passo indietro?
«Siamo un Paese così: dopo aver buttato la vecchia scuola in nome dell’omologazione, ci ripensiamo».
Funzionerà?
«Credo di sì. Siamo simili ai russi: dopo che deragliamo e strafacciamo, poi subentra il senso di colpa. Dobbiamo seminare ottimismo, non uccidere la speranza nei ragazzi. Però bisogna sudare. Altrimenti, anziché degli uomini, formiamo dei cretini. E non se ne sente la mancanza».