da LASTAMPA.it
Gramsci rispunta da destra
LUCIA ANNUNZIATA
Caduto in penombra a sinistra, Antonio Gramsci sta ritornando alla ribalta come uno dei riferimenti intellettuali del centrodestra al governo. Due giorni fa, nella sua audizione alla Camera lo ha citato il ministro dell’Istruzione, Gelmini. Qualche settimana fa, una citazione (delle molte) di Gramsci fatta dal ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi ha scatenato una tempesta dentro il centrodestra. È un puro caso, una pura arte del travestimento il fatto che proprio i due ministeri che nel Berlusconi IV gestiscono arte e istruzione citino questo filosofo di sinistra per eccellenza, il fondatore di quella concezione «moderna» della presa del potere che ha fornito alla sinistra italiana il suo specifico tratto non-sovietico? Può essere. Ma può anche essere che questa adozione di Antonio Gramsci sia lo specchio credibile di una nuova attitudine al potere che il governo attuale intende sviluppare.
La prima cosa da ricordare è che la natura non schematica del pensiero di Gramsci, uomo dai molti interessi, dagli approcci sfaccettati e non ideologici, l’ha spesso reso interessante anche a letture non di sinistra. Nel 2007 il settantennio della sua morte ha mostrato quanto complessa è la penetrazione del gramscismo. E qualcuno ha persino detto, in quell’occasione, che oggi è proprio la destra l’erede vera del gramscismo. Frase che in Italia sa di provocazione. Ma non negli Stati Uniti, se guardiamo ai neocon americani, ad esempio al Project for the New American Century, che da Gramsci prende la convinzione che l’agire politico è nella diffusione di idee nella società civile, e che solo dopo viene il successo nella politica istituzionale. O se guardiamo alla Francia di Nicolas Sarkozy, che in un’intervista a Le Figaro, ripresa in Italia da il Giornale, ha detto: «La mia lotta non è politica, ma ideologica. In fondo mi sono appropriato dell’analisi di Gramsci: il potere si conquista con le idee».
È la destra che da anni cerca di reinventarsi e che in questo processo cerca d’includere anche le lezioni imparate dalla cultura «di sinistra». Di tutte queste lezioni, quella di Gramsci è certo la più moderna, perché la sostituzione di egemonia a presa del potere è l’anticipazione di una società in cui classi e media, alleanze e simboli fondano un consenso molto più forte di qualunque coercizione. Del resto gli americani sanno bene che il loro impero si è costruito sull’entusiasmo suscitato nel mondo dal loro modello culturale.
Per questi rami è arrivato anche in Italia (e da abbastanza tempo) il gramscismo di destra. La settimana dopo la sconfitta del 2006 il Domenicale, edito dal senatore Dell’Utri e diretto dal giovane Angelo Crespi, titolava «Gramscismo Liberale» per invitare a una nuova riflessione. È in quel periodo post-elettorale in effetti che rinasce nel centrodestra l’attenzione sui meccanismi del potere. Gli intellettuali, i blog, i giornali elitari del centrodestra, dal Domenicale a Ideazione, a Socci, a Veneziani, al Foglio, cominciano a fare severe autocritiche sui limiti del lavoro del governo: abbiamo occupato con gli uomini ma non abbiamo avuto idee forti, non abbiamo saputo contrastare con una nostra cultura quella della sinistra. Paradossalmente, dopo cinque anni di grande potere, una parte del centrodestra spiega allora la sua sconfitta rievocando lo spauracchio della dominazione culturale del centro sinistra: nel mondo della canzone, del cinema, della Rai, dei giornalisti, delle case editrici. Ma le teste più avvertite capiscono che si possono fare «epurazioni» (traduzione del famoso «non faremo prigionieri») ma che il consenso è qualcosa di molto più difficile da ottenere.
È nata lì la riflessione sul potere con cui Berlusconi si ripresenta ora sulla scena, con parole come: memoria condivisa, fine della guerra ideologica, dialogo. La sua proposta è quella di costruire una sorta di meticciato politico, che fonde le varie idee e le rimacina. Il campione del processo è Tremonti, uscito liberista e tornato al governo protezionista (come sempre la sinistra). Ma a meglio svelare i nuovi toni, non a caso, sono i due ministeri che gestiscono la cultura. Sandro Bondi, il più affezionato degli uomini del Cavaliere, tra i suoi primi passi da ministro si rifà all’egemonia gramsciana e va a lodare a Cannes la vittoria di due film «di sinistra», e a dire che il cinema italiano (quello considerato tipico frutto del centrosinistra fino ad ora) non sta affatto morendo; sceglie di colloquiare sull’Unità con uno dei padri nobili dell’opposizione, Alfredo Reichlin, e di scrivere su il Foglio una recensione omaggio al libro dell’altro padre nobile, Eugenio Scalfari. E di annunciare infine, domenica scorsa, il suo programma, sempre a il Domenicale, parlando di superare concezioni di parte a favore dell’identità nazionale. Così anche la Gelmini, che cita Gramsci e recupera altre idee della sinistra: più soldi agli insegnanti e il riconoscimento che la scuola non è un disastro.
Non tutti sono d’accordo, a destra. Ideazione scriveva in maggio di un «complesso di inferiorità» del centro destra «che fatalmente spinge i rappresentanti della parte largamente maggioritaria del Paese a riconoscere la capacità di elaborazione e controllo intellettuale degli avversari, tanto porgendole apertamente omaggio quanto - più spesso - criticandola e insieme mostrandosi impazienti di sostituirsi ad essa». Ma queste divisioni sono una ulteriore prova che a destra è in corso un tentativo consapevole di trasformazione; che il dialogo non è solo un gioco di parole.
Magari non funzionerà. Ma anche solo un modesto meticciato potrebbe essere efficace nello svuotare quel che è rimasto della tradizione di sinistra. In particolare in un momento in cui questa sinistra già di per sé sente di essersi persa.