da Corriere
«La classe dirigente non legge più»
Aggiornarsi? Inutile. «Il segnale di un Paese disilluso verso il futuro»
di CINZIA FIORI
Tirature 2008 è dedicato all'«Immaginario a fumetti», suggerendo involontariamente un percorso di consolatoria evasione dalle brutte notizie sulle patrie letture che giungono verso la fine dell'almanacco (a cura di Vittorio Spinazzola, edito dalla Fondazione Mondadori e il Saggiatore). È Pierfrancesco Attanasio a rivelare che la nuova classe dirigente italiana considera superfluo l'aggiornamento professionale. E chiarisce che siamo in piena tendenza al peggioramento. I dati globali: nel 2000 soltanto un occupato su quattro leggeva un libro l'anno per ragioni di lavoro, un dirigente o libero professionista o imprenditore su due e, addirittura, un ragazzo in cerca d'occupazione su dieci.
Includendo quest'ultimo sconcertante dato, il nuovo millennio si apriva con soltanto sei milioni fra gli appartenenti alla popolazione attiva — impiegati e in attesa di impiego — che leggevano per aggiornarsi. Nel 2006 il loro numero è ulteriormente sceso. In cinque anni l'Italia si è ritrovata con un milione di lavoratori informati in meno: cinque milioni in tutto su 25 milioni e quattrocentomila occupati o in cerca d'occupazione. Per venti milioni di italiani, insomma, libri e lavoro non hanno nessuna attinenza.
La classe dirigente non riserva sorprese meno incresciose, visto che nel 2006 la sua percentuale di lettori per motivi professionali è scesa del 7,6 rispetto ai già magri risultati del 2000. In cifre: soltanto 1.067.000 dirigenti, liberi professionisti o imprenditori leggono almeno un libro l'anno che sia collegato al loro lavoro. In compenso, durante questo lustro, il numero dei dirigenti è aumentato, passando da 2.325.000 a 2.779.000. Ciò significa che un milione e settecentomila esponenti della classe dirigente non sono neppure sfiorati dal proposito di leggere un libro per ragioni professionali. Non è il motivo che li porta in libreria neanche una volta l'anno.
Incrociando tutte le tabelle Istat relative al 2000 e al 2006, Attanasio scopre che quasi nulla è mutato nelle abitudini della vecchia guardia, piuttosto, è la nuova classe dirigente a considerare superfluo leggere per tenersi al passo con le novità del proprio lavoro. Il mantenimento dello status quo è più che sufficiente.
La disillusione sul futuro è servita. Soprattutto se si paragonano le nostre percentuali a quelle estere. Lo fa Marco Gambaro in un altro capitolo. Con l'avvertenza che nella sua analisi la categoria «libri utili» comprende anche i manuali per il tempo libero, il risultato è che il loro tasso di lettura in Italia è del 16 per cento, contro il 36 di Gran Bretagna e Germania, e il 27 della Francia. Peccato, perché Gambaro ci aveva appena comunicato una buona notizia: la percentuale dei lettori per svago (narrativa e saggistica leggera) in Italia è sostanzialmente analoga a quella degli altri Paesi europei. Un risultato raggiunto dopo una lunga stagione di arretratezza, recuperata nel corso degli ultimi vent'anni perché era legata soprattutto al basso livello di istruzione, oltre che al reddito. E questo toglie ogni speranza, visto che alla classe dirigente non fanno difetto né gli studi né i guadagni.
È proprio una questione di mentalità: aggiornarsi non serve ai giovani dirigenti né ai giovani disoccupati. Così la pensano, stando alle tabelle. Neppure la speranza che si preparino su Internet è molto fondata perché c'è una correlazione stretta fra l'uso avanzato dei media digitali e quello dei libri. L'ultima indagine in proposito, quella promossa dall'Osservatorio permanente dei consumi digitali, rivela l'esistenza di persone — perlopiù giovani e maschi — che usano molto le tecnologie senza essere lettori, ma lo fanno per frequentare chat o scaricare suonerie e non per l'accurata ricerca di fonti attendibili richiesta dall'aggiornamento professionale. Possibile che nessuna scuola abbia insegnato alle nuove generazioni il valore dei libri per aumentare la probabilità di trovare lavoro o di crescere professionalmente se già occupate? Domanda retorica. Che precede quella nata dallo sconforto di Attanasio: quale futuro può avere un Paese che parte da simili premesse?