da LASTAMPA.it
Vado a studiare all'estero e non torno più
Ogni anno 40 mila studenti lasciano l’Italia
RAFFAELLO MASCI
ROMA
All’estero Si può: si può studiare meglio, si può fare carriera, si può lavorare senza essere raccomandati, si fa un precariato che non è sottoccupazione, si passa prima ad un impiego ben retribuito. E così sono sempre di più i giovani italiani che danno il loro «addio ai monti» senza nostalgie e senza lacrime.
«L’attuale situazione di incertezza e di confusione che attraversa il Paese - spiega Giuseppe Roma, direttore del Censis che a questo fenomeno ha dedicato un focus - sta provocando una fatale attrazione verso l’estero. Gli imprenditori negli ultimi anni hanno risollevato l’andamento del Pil attraverso le esportazioni, ma soprattutto insediandosi in mercati stranieri, accettando le regole e gli standard internazionali. Altrettanto vale per i giovani, sia durante la fase formativa sia in quella lavorativa. La dequalificazione delle università italiane produce nei giovani più intraprendenti una forte spinta a studiare all’estero».
I numeri non sono ancora stratosferici, ma indicano una tendenza forte e inarrestabile. Intanto all’estero studiano ormai, sia pur per brevi periodi, il 14% dei ragazzi italiani tra i 15 e i 29 anni, una percentuale che sfiora il 30% (29,8) se riferita solo a universitari. Il programma Erasmus di questo fenomeno costituisce solo un segmento, tuttavia in forte espansione: sono meno di 20 mila gli studenti universitari che vi partecipano ogni anno, un numero limitato al basso budget investito (13 milioni circa), ma sono tantissimi se paragonati ai 220 di 20 anni fa.
«Gli studenti - commenta il vicepresidente esecutivo della Luiss Attilio Oliva - vedono all’estero università che funzionano, che investono, che fanno bene ricerca, che valorizzano i talenti. E’ questa la grande attrattiva che richiama oltreconfine. E sarebbe un bene se fosse solo sprovincializzazione, ma si rivela un preoccupante segnale se indica solo, come credo, una sfiducia nelle nostre università».
E il fenomeno, per la verità, sembra proprio essere questo, al punto che quasi 40 mila studenti (38.700) decidono ogni anno di non fare proprio l'università in Italia e andare direttamente all’estero: Germania, soprattutto, ma anche Austria, Inghilterra, Svizzera, Francia, Stati Uniti e, con percentuali sempre crescenti, Spagna. Da qui a decidere di lavorare poi in un Paese straniero, il passo è breve, e lo compiono il 4% dei neolaureati italiani. Gli stipendi d’ingresso all’estero sono in media superiori a quelli italiani del 30% (il 43% è tra i 1300 e i 1700 euro quando da noi sono sotto i 1000). E, a parità di precariato (circa un terzo del totale dei neoassunti) i laureati italiani all’estero vengono collocati su livelli mediamente più alti dei loro colleghi restati in patria (quadri o funzionari). Senza dire che fuori da qui si aprono prospettive anche per quei laureati che da noi hanno poco mercato: il 34% dei neodottori italiani all’estero, infatti, proviene da facoltà umanistiche, seguiti dai laureati in discipline economiche (28%) e giuridico-sociali (19%). Poi - ma questo era prevedibile - gettonatissimi sono gli ingegneri e i laureati nelle scienze pure.
Perché lì hanno successo e qui da noi no? Una risposta, secondo i dati Censis, è nella valorizzazione della meritocrazia (altro grande fattore di richiamo): il 22,4% dei nostri concittadini espatriati dice di aver trovato lavoro con una semplice inserzione, mentre da noi una percentuale analoga va riferita ai posti ottenuti tramite «conoscenze amicali o parentali».
Stiamo assistendo ad una fuga di cervelli? No, rassicura il Censis, all’estero vanno ragazzi preparati nella media: il loro profilo formativo non si differenzia da quello di chi ha scelto come luogo di lavoro l’Italia, sebbene tra i primi risulti leggermente più elevata la quota di laureati in corso (22,1% contro il 18,6% dei secondi) e con il massimo dei voti (32,2% contro il 26,2%). «Fin tanto che il fenomeno è di dimensioni contenute - commenta Oliva -, questa apertura all’estero mi sembra fisiologica e riferibile soprattutto ad una élite sociale ed economica. Mi preoccupa, semmai, il dato di tendenza, che esprime una crescente sfiducia dei nostri giovani nei confronti del nostro sistema universitario».
«L’offerta formativa universitaria - conclude Giuseppe Roma - in Italia si è moltiplicata di numero, ma le buone facoltà si contano sulle dita di una mano. L’accademia si provincializza, mentre i giovani che non vogliono cadere nella spirale del precariato hanno capito che devono studiare in un ambiente di alto livello e ben inserito in circuiti internazionali. Prima si andava all’estero per prendere un master o un PhD. Ora, si inizia dal primo anno di università. Magari non facendo più ritorno in Italia».