CIDI: A proposito di merito

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CIDI: A proposito di merito

Messaggiodi edscuola » 11 luglio 2012, 8:31

C.I.D.I.

A proposito di merito

“Merito” letteralmente significa un diritto alla lode, alla stima, alla ricompensa per qualità intrinseche della persona. E’ una azione, un comportamento, una qualità che rende degno di lode, stima, ricompensa una persona.
Premiare il merito viene perciò automaticamente ascritto a quel sistema di valori, equo e democratico, che promuove le “capacità” delle persone indipendentemente dalla loro provenienza familiare e sociale. L’unico antidoto possibile a una società che continua a far prevalere la cooptazione e il nepotismo come esclusivi criteri per andare avanti nella vita, per accedere a un posto di lavoro, per entrare nelle facoltà universitarie o in politica, per fare carriera. A prescindere dalle capacità individuali.

E’ anche per colpa di questo micidiale meccanismo, specifico del nostro paese, che la nostra società è rimasta sostanzialmente immobile: le indagini rilevano infatti che la famiglia di appartenenza disegna il destino dei propri figli entro chiari confini di classe.

Non si può perciò guardare al merito e all’eccellenza nella scuola e nell’università senza considerare il modo e gli stili di vita presenti nella nostra società: che dire dei tanti giovani che una volta diplomati e laureati pur avendo raggiunto livelli di istruzione degni di lode e di stima per lavorare devono andare in altri paesi? Quanti di quelli che rimangono possono contare sulla raccomandazione? Quanti ce la potranno fare da soli?

Il tema del “merito” perciò è di quelli interessanti, che vale la pena di approfondire e, perché non si pensi che chi è contrario a premiare e a monetizzare il merito e l’eccellenza nella scuola sia contrario a far emergere, valorizzare e premiare le capacità individuali, conviene avanzare qualche considerazione.

1. La scuola lavora sui tempi lunghi, guarda al “merito” degli studenti come a un punto di arrivo e mai di partenza: il merito di ciascun bambino è infatti il risultato di un lungo e difficile lavoro.
Il criterio della competizione e della selezione in base al merito forse funziona su tempi brevi nel settore privato, o in quei settori dove tutti partono dallo stesso punto e hanno esperienze e competenze analoghe. Nella scuola no.
Sono tante le variabili di cui si deve tener conto, a cominciare dal fatto che la scuola non può quantificare, monetizzandolo, il valore di un allievo: la scuola non produce oggetti, forma persone, bambini e bambine, ragazzi e ragazze in carne e ossa che crescono e vivono insieme aiutandosi e interagendo quotidianamente. La scuola non è una gara di velocità, “educa il pensiero a pensare”.

2. Nella scuola uno studente è “meritevole” se la scuola fa il suo lavoro. E la scuola fa il suo lavoro se mette ogni studente in grado di essere “meritevole”.
A scuola i ragazzi arrivano con un livello di preparazione e di motivazione allo studio che dipende dalla loro provenienza familiare e sociale: una scuola come la nostra, a mandato Costituzionale, serve proprio a questo, a “rimuovere gli ostacoli” che tanti ragazzi si portano addosso (comma 2, art. 3 della Costituzione).
Il ruolo della scuola non può essere quello di registrare le disuguaglianze culturali prodotte dalla società proponendo in maniera astrattamente egualitaria la sua offerta educativa; ma quest’ultima deve essere costruita in base alle capacità degli allievi per portarli tutti potenzialmente agli stessi obiettivi.
Ci siamo troppo in fretta dimenticati di quello che diceva il papà di Gianni al preside della scuola frequentata dal figlio: “é compito della professoressa Spadolini rimuovere gli ostacoli, non può rimuovere gli ostacoli lui che ce li ha addosso! Se sapeva fare da sè non vi mandavo Gianni a scuola!” (Lettera a una professoressa).

3. L’art. 34 della nostra Costituzione recita:
“I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.
Qual è la differenza con quanto oggi viene proposto in tema di merito?
Profonda: lo spirito della Costituzione voleva salvaguardare gli studenti, non necessariamente eccellenti o i primi che, benché privi di mezzi, dimostravano interesse e capacità negli studi e quindi meritavano che la Repubblica se ne facesse carico, aiutando le famiglie. Oggi si propone di premiare le “eccellenze”, i “primi”, i “talenti” emergenti, a prescindere dal loro reddito, perché – sostiene il ministro Profumo – sono un modello positivo trainante per tutti gli altri. Si cambiano così non solo le finalità della scuola pubblica, ma la sua impostazione pedagogica, senza considerare che concorsi, olimpiadi, menzioni d’onore sono per i ragazzi una misera motivazione, che però potrebbe distrarre qualche insegnante dal prendersi cura di tutti gli altri.
Tra l’altro da almeno un decennio si continuano a tagliare i fondi per l’istruzione e per il diritto allo studio: sarebbe allora più utile e urgente, in un momento di crisi e recessione economica come quello che oggi viviamo, destinare anche quei 30 milioni che il ministro Profumo vuol destinare alla premialità del merito e dell’eccellenza, per la lotta alla dispersione, per la scuola dell’infanzia o per l’organico funzionale.
E veniamo alla competizione tra scuole. Anche qui il Ministro dell’Istruzione è convinto che premiando le scuole migliori, le altre siano motivate a lavorare di più e meglio.

1.Valorizzare e premiare le scuole “migliori” (migliori rispetto a quali parametri di riferimento, a quali standard di funzionamento?), non può essere la strada per la qualità, anzi introdurrebbe una competizione inutile e dannosa tra istituti, determinando un clima negativo all’interno della stessa comunità scolastica. Se il proposito è quello di valorizzare il lavoro dei docenti perché se ne avvantaggi la scuola nel suo complesso, ogni proposta non può contenere elementi che rischiano di innescare tra scuole o all’interno della stessa scuola, dinamiche opportunistiche e conflittuali. La scuola, si diceva una volta, non è un’azienda!

2. E’ oggettivamente difficile stabilire quali elementi devono essere misurati e tenuti sotto osservazione per valutare il lavoro svolto da una scuola e i risultati raggiunti. Infatti il successo o l’insuccesso di un allievo, di una classe, di una scuola vanno visti non solo in rapporto ai livelli di partenza, ma al contesto familiare e sociale di appartenenza di ogni allievo, ai ritmi di apprendimento, allo stile di vita e di studio, alle risorse che la scuola mette in campo, al tipo di didattica condotta, alle offerte educative che il territorio offre, alla considerazione che le famiglie hanno della cultura e dell’istruzione, ai modelli sociali di riferimento. Appunto, elementi diversi, e sarebbe già difficile così. Non è pensabile quindi per valutare il successo isolare alcuni elementi o prendere in considerazione solo il risultato finale della classe desunto, peraltro, dalle prove Invalsi.

3. Definire una scuola “eccellente”, presenterebbe al territorio, al di là delle intenzioni, una graduatoria tra istituti, una demarcazione tra scuole di serie A e B. Ogni genitore sarebbe spinto a chiedere per il proprio figlio la scuola percepita come la “migliore”, laddove il diritto ad un apprendimento di qualità è per tutti e in ogni territorio. Sarebbe una cosa non gestibile, a meno che non si intenda e si sottenda che nelle scuole “migliori” andranno gli studenti che per diritto di casta saranno cooptati o raccomandati, o che magari potranno permettersi di pagare tasse più alte.
Se il governo dovesse trasformare il “merito” in un criterio ideologico per far funzionare la qualità, senza preoccuparsi di risolvere i problemi strutturali del sistema scolastico, peggiorerà la già difficile situazione delle scuole. Si apra dunque sul tema un confronto con la Scuola e il Parlamento.
Capiamo che il dibattito, non certo recente, nasce dalla convinzione che la scuola non sia all’altezza: ha la colpa – molti sostengono – di non valorizzare il merito, di non promuovere i talenti, di non dare complessivamente un’istruzione di qualità. Certamente la scuola ha le sue responsabilità e non si intende difenderla per come essa è: deve migliorare la sua efficacia, deve innalzare i livelli di apprendimento di tutti gli alunni, deve mettersi in discussione, deve far sì che il successo scolastico tocchi tutti gli alunni, anche quelli che hanno i genitori senza un titolo di studio o che vivono nel Sud del paese.
Ma va anche detto che la scuola ha fatto il massimo che è stato possibile fare nelle condizioni in cui ha operato. Se consideriamo la scarsa attenzione sociale e la scarsa cura politica. Se consideriamo le irresponsabili inadempienze che in ogni epoca e con ogni governo le sono state riservate.
Se consideriamo da dove la scuola è partita e dove è arrivata: nel ’47, l’anno della Costituzione, il 59,8% della popolazione adulta era ancora senza un titolo di studio, non aveva neppure la licenza elementare; da allora, progressivamente, la nostra scuola ha portato più dell’80% dei ragazzi a un diploma di scuola superiore (dati del Miur). Tanto che con orgoglio il ministro Profumo ha potuto dire pubblicamente in una recente intervista che in Europa in tutti i concorsi per ricercatori o docenti universitari emergono con successo gli studenti italiani.
Quello che davvero servirebbe è un Istituto nazionale di valutazione, autonomo dall’Amministrazione che, in via sperimentale e con il coinvolgimento degli insegnanti, funzionasse non per stilare graduatorie tra alunni o tra scuole, ma per orientare il sistema stesso a correggere le disfunzioni, a promuovere riforme e innovazioni, a indirizzare la spesa pubblica, a spostare competenze e risorse, a promuovere la ricerca didattica e la sperimentazione sul campo.

Ma di questo nessuno ha parlato.

Roma, luglio 2012
edscuola
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