Corsi in inglese? Quella vecchia polemica dei radicali

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Corsi in inglese? Quella vecchia polemica dei radicali

Messaggiodi edscuola » 2 luglio 2012, 6:32

da TuttoscuolaNEWS

Corsi in inglese? Quella vecchia polemica dei radicali

Aveva suscitato scalpore, qualche mese fa, la notizia che anche il ministro Profumo approvava la decisione del Politecnico di Milano di adottare l’inglese come lingua da utilizzare obbligatoriamente in tutti i corsi della laurea specialistica in ingegneria a partire dal 2014.

La decisione era stata motivata dal rettore del Politecnico di Milano, Giovanni Azzone (ingegnere come Francesco Profumo, già rettore del Politecnico di Torino), con la necessità di attrarre studenti stranieri e di “internazionalizzare” dal punto di vista linguistico l’offerta formativa anche a beneficio degli studenti italiani.

Contro la proposta di fare dell’inglese la lingua di comunicazione esclusiva di tutta l’area degli studi e delle professioni di tipo tecnico-scientifico e economico-manageriale (anche la Bocconi e la Luiss già da tempo tengono corsi in inglese) si sono mossi immediatamente i radicali, che da decenni combattono contro il crescente predominio dell’inglese, al quale contrappongono l’esperanto. A sostegno del quale hanno costituito nel 1987 l’ERA (Esperanto Radikala Asocio), le cui tesi hanno spesso trovato spazio nei programmi della Radio Radicale.

La tesi dell’ERA è che tutti i popoli hanno il diritto di parlare la propria lingua e di vederla riconosciuta in ambito giuridico, e che se si vuole salvaguardare la ‘democrazia linguistica’ e il suo carattere pluralistico la comunicazione internazionale non deve avvalersi di alcuna ‘lingua etnica’, come lo è l’inglese, ma ricorrere a una lingua ‘neutrale’ appartenente a tutta l’umanità, come appunto l’esperanto.

E’ assai improbabile che la storica battaglia degli esperantisti abbia successo, ma intanto Radio Radicale ha mandato in onda anche le ragioni di una corposa minoranza di docenti del Politecnico di Milano contrari non all’uso dell’inglese per determinati corsi e argomenti, ma al suo impiego indiscriminato in totale sostituzione dell’italiano. Essi sembrano condividere la preoccupazione manifestata dal linguista Luca Serianni, a cui giudizio la drastica rinuncia alla lingua madre nell’istruzione tecnico-scientifica può comportare una regressione nel controllo delle strutture logico-argomentative. Obiezione che anche a noi sembra non infondata.

Alle ragioni che inducono a considerare sbagliata e ‘provinciale’ la deferenza nei confronti della lingua inglese dedica il suo consueto intervento su Tuttoscuola il pedagogista Benedetto Vertecchi, pubblicato nel numero di giugno del nostro mensile.

“Pensare di ridare smalto al sistema universitario italiano sostituendo scadenti insegnamenti nella lingua patria con insegnamenti ancora più scadenti in inglese”, scrive Vertecchi, “è un segno della decadenza cui è giunta non tanto l’università (in Italia ci sono ancora tanti studiosi in grado di promuovere gli studi in italiano, e di comunicare, tra pari, in altre lingue per ciò che concerne l’impegno nella ricerca), quanto il mediocre ceto accademico e politico che è venuto insediandosi nei centri del potere”.

La scelta dell’inglese non accanto ma in sostituzione dell’italiano rivela una “vocazione subalterna” ed evidenzia l’“atteggiamento dimesso del provinciale” da parte di chi, pendendo atto delle men che mediocri prestazioni delle università italiane nei ranking internazionali, pensa di affrontare il problema attraverso la scorciatoia dell’uso dell’inglese nei corsi e nelle pubblicazioni (anche in quelle italiane) anziché puntando sulla via maestra dello sviluppo della ricerca.

La principale obiezione alla dilagante anglofilia linguistica, avanzata anche da Tullio De Mauro, sembra tuttavia quella relativa alle gravi limitazioni al pieno e consapevole controllo dei processi mentali, e in fin dei conti alla autonomia e alla libertà dell’individuo, che ci sembra quasi inevitabilmente derivare dalla rinuncia a pensare, cioè a riflettere, dedurre, astrarre, insomma ragionare, nella lingua che si conosce meglio, quella materna. Il bilinguismo perfetto è, e sarà a lungo, un fatto assolutamente eccezionale.
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